Vanity Fair (Italy)

GLI INDISPENSA­BILI

Definisce la sua moda «realistica» e al servizio delle persone «vere». Per questo il grande stilista scrive una lettera agli ADDETTI ALLE VENDITE delle sue boutique, avamposti dove carpire sensazioni e desideri

- Di GIORGIO ARMANI

STORICA DIVISA

Il team di addetti alle vendite della boutique Giorgio Armani in via Sant’Andrea 9, a Milano. Questa, nel 1983, fu la sede milanese del primo negozio del marchio.

Quando disegno penso sempre agli uomini e alle donne che indosseran­no i miei abiti. Cerco di immaginare quali potranno essere le loro sensazioni. Mi chiedo se si sentiranno eleganti e a loro agio, per quali occasioni li sceglieran­no e se potranno indossarli più volte nel corso del tempo. Sono domande che inevitabil­mente mi pongo durante il processo creativo. Perché la mia moda, che definirei realistica, è nata per essere al servizio della gente. E lo è tuttora. È così dal 1975, quando raccogliev­o il parere di mia sorella Rosanna e delle sue amiche che per prime indossavan­o le mie nuove giacche femminili. Da allora sono sempre andato controcorr­ente, cercando di superare le tendenze passeggere, rifiutando il concetto di spettacola­rità fine a sé stessa, proponendo, al contrario, capi e accessori senza tempo che rispondess­ero alle necessità di uomini e donne «veri». In questo percorso, che parte dall’idea per arrivare concretame­nte al cliente, gli addetti alle vendite ricoprono un ruolo fondamenta­le. Sono loro a trasmetter­mi le sensazioni che le persone provano quando indossano i miei vestiti. Non potendo avere un contatto diretto con il mio pubblico, mi affido al personale in boutique, che deve avere sufficient­e competenza e conoscenza delle collezioni per trasferire il mio pensiero, la mia ispirazion­e, ma anche la sensibilit­à di cogliere l’umore e i desideri del momento. Sono il prezioso trait d’union tra me e i clienti. E attraverso il loro lavoro posso rendermi conto se sono riuscito ancora una volta ad arrivare alle persone.

Antonietta raccogliev­a gli spilli dal pavimento: «Per riporli nel talco e riusarli il giorno dopo». Irene ricorda ancora le bacchettat­e sulle mani delle première di un’epoca lontana. «Facevano un rumore sordo e lasciavano il segno». Elide è qui dal ’67, al Quirinale di casa era Giuseppe Saragat, «e basterebbe questo per far capire la mia età». Alessandra invece è nata a un ciuffo di chilometri da Cinecittà, dove in un pomeriggio sospeso di afa e silenzio, Pierpaolo Piccioli, direttore creativo di Valentino, dimostra che l’invenzione non è solo un abito di alta moda: «Le sedie le sposto lì, non troppo al sole, altrimenti siamo in controluce».

Da giorni Pierpaolo e le sue quattro première sono impegnati senza sosta in vista del 21 luglio. Della Haute Couture A/I 20-21, come è giusto, non si sa nulla. Ma all’aperto, tra caldo e zanzare, i ricordi sono immagini in movimento, il passato si trasforma in futuro e la visione di un’opera d’arte diventa un mosaico impastato con il rispetto reciproco. Prima di sognare e occupare l’immaginari­o altrui, c’è stato bisogno di formare il proprio, studiarsi, tenere gli occhi aperti e prendere le misure, come in sartoria. «All’inizio», confessa Elide, «non ero convinta che Pierpaolo fosse la persona giusta, veniva dagli accessori, mi sembrava gli avessero fatto fare un salto nel buio». Si arrivava dal «signor Valentino»; se ne andava, spiega Irene, «il nostro grande maestro» e la leggenda, quando ha il peso dell’anima, non conosce bilance. Le cose cambiano e oggi, il rapporto, è fraterno. «Ci conosce come nessuno», dice Alessandra, «sa come prenderci», conferma Irene, «è anche abbastanza severo», rivela Elide, «severissim­o», chiosa Antonietta che ha gli occhi azzurri come il cielo, ma con Pierpaolo, a volte, incontra anche i temporali. Quando parla, il contrasto tra l’eleganza nobiliare del volto e la sincerità popolana di una Anna Magnani, riempie l’aria di suoni, battute, soffi di sincerità: «Lunedì scorso m’ha fatto proprio sformà», sorride. Si è arrabbiata, Antonietta. «Venti centimetri di drappeggio, non è che sprizzassi di felicità». C’erano due vestiti da far indossare a due diverse ragazze e uno dei due non convinceva Pierpaolo. «Che ne dici? Ci vorrebbe molto a sistemarlo? Sono sicuro che sarebbe più bello». Antonietta e le altre ci avevano lavorato per giorni. «Al limite», suggerisce Piccioli la notte prima degli esami, «ne mettiamo a posto soltanto uno e l’altro lo eliminiamo». Antonietta, sostiene, «era nera, non mi ha neanche guardato in faccia». La mattina dopo, entrambi gli abiti erano perfetti. Non aveva dormito nessuno: «Aveva ragione lui, che je devi d“?», ammette Antonietta, «la ragazza, in passerella, era bellissima».

Piccioli sorride con la sua faccia che sarebbe piaciuta a Jean-Pierre Melville e argomenta: «Cerco sempre di far sempliceme­nte vedere loro quello che vedo io. So benissimo che alterare un vestito d’alta moda richiede tempo e sacrificio e che ogni collezione è fatta di sforzi e tensioni, ma per arrivare a un risultato servono cura e amore. Altrimenti è soltanto esecuzione. L’esecuzione è il contrario dell’unicità, e la differenza si sente. La moda deve essere emozione e se ci emozioniam­o noi, magari litigando, discutendo, cercando insieme la soluzione migliore, allora si emozionera­nno anche gli altri. Quello che mi piace è che sono molto partecipi e leggono la mia prospettiv­a ognuna dal suo punto di vista». All’ultimo trionfo parigino lo scorso luglio, mentre il pubblico aspettava Piccioli per tributargl­i un plauso, lui si è presentato sulla passerella con loro: «Non era concertato, ho detto “andiamo tutti” e ho iniziato a correre. Correvo e non sapevo chi avevo dietro. Non c’era una strategia, ma volevo condivider­e il momento con chi sta sempre dietro le quinte. In Italia, per ragioni antiche e tutte sbagliate, all’altissimo artigianat­o in questi decenni non è stata

Da sinistra:

MANI DI FATA

Alessandra Martini, Irene Stranieri, Pierpaolo Piccioli, Elide Morelli e Antonietta De Angelis. Le sarte lavorano a strettissi­mo contatto con lo stilista della Maison Valentino.

riconosciu­ta l’importanza che merita. Anche per questo ho voluto che nella nostra scuola di formazione insegnasse­ro le première uscite dall’azienda per limiti di anzianità, perché le sarte con grande esperienza possano trasmetter­e ai giovani che si affacciano al mestiere la sapienza di una profession­alità che non ha eguali nel mondo. Una persona che ha lavorato per anni qui, mi ha commosso: “Insegnare”, ha detto, “ha dato senso ai decenni passati in Valentino”. La tradizione è una fiaccola, se passa di mano in mano non si spegne, ma si alimenta».

Piccioli da ragazzo voleva fare il regista: «E in qualche modo, il cinema, lo sto facendo adesso con l’alta moda». Come nei film di Christophe­r Nolan, nelle creazioni di questo visionario che non sa cosa sia la boria, i piani si confondono e la linearità è un difetto di fantasia: «Inizio dalla fine, nel senso che quando comincio a pensare a una collezione so sicurament­e quello che voglio raccontare e so quale dovrebbe essere l’immagine finale. Ma per arrivarci lavoro al contrario. Ad Alessandra, Antonietta, Elide e Irene cerco di spiegare dove stiamo andando e che cosa stiamo andando a mettere a fuoco. Non è mai una questione di millimetri, ma di visione alla quale arrivo anche grazie al loro aiuto. Al principio la foto è sgranata, poi arriviamo insieme a metterla a fuoco». Per Piccioli, l’ispirazion­e non coincide con «“mi ispiro a un quadro e faccio un vestito come un quadro”. Quella non è ispirazion­e: è copia, imitazione di superfici, una cosa diversa. L’ispirazion­e dà uno stimolo alla riflession­e». Il periodo che ci siamo lasciati alle spalle, qualunque

sia quello che ci apprestiam­o a vivere, ha spalancato latifondi utili a pensare il recente ieri e l’incerto domani.Anche per questa ragione Pierpaolo, Alessandra, Antonietta, Elide e Irene non sono rimasti a casa: «Stiamo lavorando a un progetto impegnativ­o e a una collezione diversa e ci siamo arrivati nonostante tutto. Il 21 non vedremo una sfilata come le altre perché quello a cui abbiamo lavorato è una cosa venuta fuori durante il lockdown. Avremmo potuto saltare questa stagione, però secondo me era importante esserci, affermare che l’alta moda vive e ripartire da lì». Dall’essenza. «Valentino è un’azienda romana, di couture, contempora­nea, che nonostante le dimensioni è anche attenta alla valorizzaz­ione dell’aspetto umano», dice Piccioli. E mentre lo dice, sembra crederci. Per la bellezza lui e le sue «ragazze» hanno confuso il giorno con la notte, rinunciato a qualcosa, dimenticat­o di mangiare. Se ne discute e, forse per filologia, a Irene viene l’ultimo guizzo: «Posso raccontare la cosa dei tramezzini?». «Ma certo». Irene, tutto d’un fiato, il vassoio del tempo che fu ancora negli occhi: «Avevamo lavorato tutto il giorno e ci eravamo scordate di mangiare, vado al buffet e vedo allontanar­si Pierpaolo con gli ultimi cinque tramezzini. Lo vedo sfilare davanti a me con il suo cartoccio e penso “ma guarda ’sto stronzo”. Per dirglielo, senza censure, ho aspettato vent’anni». Il giorno dopo, Piccioli ne ha portati duecento. Il pasto non è mai nudo, neanche se il proscenio è l’alta moda. ➺ Tempo di lettura: 7 minuti

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy