Vanity Fair (Italy)

NIENTE È IMPOSSIBIL­E

È il motto della maison, racconta SILVIA VENTURINI FENDI, direttore creativo, che sottolinea l’importanza di essere sempre curiosi e di saper coniugare la tecnica all’estro. Come sa fare la giovane sarta Caterina, aspirante «première»

- Di MALCOM PAGANI

APPLICAZIO­NE E TALENTO

Caterina De Marco, 22 anni, lavora da tre anni come sarta alla maison Fendi.

aterina De Marco ha ventidue anni. Silvia Venturini Fendi di più. Una è mora, l’altra bionda. La prima fa la sarta. La seconda guida un gruppo leggendari­o dalla storia secolare. Giocano nella stessa squadra, sono l’una di fronte all’altra e il filo invisibile che attraversa le generazion­i è una scelta: «L’ho selezionat­a io, personalme­nte, Caterina», dice Silvia. «Mi è piaciuta perché ha dimostrato fin dall’inizio di saper coniugare la tecnica all’estro: una delle grandi risorse del Made in Italy». Nella maison fondata nel 1925 da Edoardo Fendi e Adele Casagrande, Silvia Venturini Fendi cerca «non solo semplici esecutori che si limitino a replicare un’idea, ma menti aperte che suggerisca­no qualcosa di loro stessi». Caterina lo ha fatto e ora, dall’Accademia di Alta Sartoria Maria Antonietta Massoli al gruppo Fendi, la sua vita è «radicalmen­te cambiata. L’impegno è totalizzan­te, ma ne sono felice e non mi pesa. Sono curiosa e in azienda imparo qualcosa di nuovo tutti i giorni». Nel dinamismo anche dialettico che trasforma il confronto in ricchezza, le due non conoscono pause. «Per tanti anni, quando ero più giovane», confessa Silvia, «nonostante avessi ben chiare le tappe del mio percorso, ho cercato di prendermi del tempo, di viaggiare, di vivere all’estero e stare anche fisicament­e lontana dall’azienda. Sapevo che quando avrei cominciato davvero sarebbe stato impossibil­e tornare indietro e così anche se ogni tanto si affaccia la tentazione di saltare un giorno di lavoro, la respingo e vado».

L’impegno è totalizzan­te, ma sostiene Caterina: «A nessuno verrebbe in mente di contare le ore o lamentare la rinuncia alla socialità». C’è un obiettivo più grande, un traguardo in grado di coniugare passione, tradizione e modernità, agitato dal sentimento della curiosità: «Il principale motore di questa profession­e. Se non hai voglia di rimettere costanteme­nte in discussion­e il tuo punto di vista o non hai la necessità di cercare la dimensione nascosta delle cose, forse questo non è il tuo mestiere. Senza curiosità rinnovarsi è impossibil­e perché curiosità significa superare i limiti e considerar­e l’errore come propulsore di un processo creativo. Non è infrequent­e che dagli sbagli scaturisca qualcosa di bello e cambiare idea o considerar­e l’importanza delle sfumature senza pensare che sia tutto bianco o nero è uno dei segreti per poter evolvere e continuare a essere rilevanti in un mercato in continuo cambiament­o». Nella sua parabola, Silvia Venturini Fendi ha incontrato artigiani straordina­ri e tecnici ai quali, giura, si è sempre rivolta «con una certa umiltà», figlia, sostiene, «della tendenza a dimenticar­e ciò che ho appreso precedente­mente perché è proprio quando pensi di sapere tutto che ti sfugge l’essenziale», e non potrebbe fare a meno degli ostacoli perché è solo in cima alla salita che il sudore dà la destra alla soddisfazi­one.

«Quando un tecnico mi dice: “L’abito è venuto male”, sento come una sorta di soffio al cuore. “Allora”, mi dico, “può darsi che sia molto bello”. La sinergia che vivo con le persone che lavorano da noi è alchemica, profonda e si nutre dell’incapacità di adagiarsi sul traguardo che si è raggiunto. È sempre un’iniziazion­e che può spalancare percorsi e scenari inediti. Io so che fino al giorno della collezione potrei cambiare ancora idea e quando la sfilata è conclusa non c’è occasione in cui mi possa dire davvero soddisfatt­a e non mi sussurri: “Avrei potuto dare di più”». Complice l’ossessione per i dettagli e

Cper l’alta qualità, in un artigianat­o che con manualità e savoir-faire spesso rivaleggia con l’arte pura, Caterina ha trovato sotto le insegne di Fendi l’indirizzo per dispiegare il proprio talento. «Applicazio­ne e talento», riflette De Marco, «possono camminare insieme, ma il secondo elemento non può fare a meno del primo. Il vero talento sa che ogni giorno ci si può perfeziona­re e che non c’è bellezza che non richieda impegno e desiderio di non arrendersi alla difficoltà». Silvia Venturini Fendi concorda: «Per riuscire a eccellere serve il giusto equilibrio tra le due componenti perché il talento da solo non basta. Esistono persone che ne sono dotate ma non sanno incanalarl­o nella giusta direzione e ne esistono altre che sono incapaci di qualsiasi rigore. Le regole sono lì anche per essere infrante, ma serve disciplina perché alla fine il talento è una cosa semplice. Significa sentire le proprie emozioni e saperle trasmetter­e». Il motto della casa madre è «Niente è impossibil­e». Una lezione che, tramandata nei decenni, è arrivata fino a Caterina: «Ho frequentat­o il liceo artistico a Roma e sono sempre stata creativa. Avrei potuto iscrivermi ad Architettu­ra ma sentivo che quella non era la mia vera strada».

Silvia Venturini Fendi, 59 anni, direttore creativo della maison fondata nel 1925.

È figlia di Anna, una delle cinque celebri sorelle Fendi (Paola, Franca, Carla e Alda), che dal 1946 hanno trasformat­o l’azienda di famiglia in una grande casa di moda famosa nel mondo.

Quindi, la sartoria: «In famiglia avevo delle sarte e quindi nell’Accademia fondata da Fendi e Massoli mi sono concentrat­a su quel grandissim­o mestiere. Adesso posso dire di saper cucire un abito, ma il mio percorso è soltanto all’inizio. Spero di crescere ancora, confrontar­mi con l’ufficio stile e poter collaborar­e un domani a creare la collezione». Silvia Venturini Fendi non ne dubita «Ho puntato su Caterina una prima volta e lo rifarei ancora perché so che ha voglia di sperimenta­re e sa cogliere le occasioni che la sua età le mette a disposizio­ne. Se mi riconosco una dote è quella di capire chi ho davanti fin dal primo istante. Attraverso le sue parole mi piacerebbe che i giovani si convincess­ero che il lavoro manuale, pur in un contesto tecnicamen­te molto avanzato, può portare davvero lontano. Caterina è con noi da soli tre anni e anche se è brava e potrebbe già confeziona­re un vestito da sola, ha di fronte a sé un orizzonte sconfinato». Piccole première crescono. E cambiano d’abito. ➺ Tempo di lettura: 8 minuti

Ognuno è l’happy few di qualcun altro. Ma, forse, quelli per cui creano Andrea e Antonio sono al vertice della piramide: pochissimi e, almeno sulla carta, i più felici.

Andrea e Antonio (il solo nome di battesimo è policy aziendale) sono rispettiva­mente il responsabi­le dellA’ lta Sartoria e dellA’ lta Moda di Dolce & Gabbana. Dopo gli studi e una lunga esperienza, sono approdati a quelli che, probabilme­nte, sono i posti più ambiti all’interno di una Maison, perché l’alta moda (che sia da donna, come da tradizione, o da uomo, novità introdotta proprio da Dolce & Gabbana) è lo spazio in cui i limiti (in termini di fantasia e di budget) sono un concetto relativo e piuttosto flessibile. Gli happy few di cui sopra sono circa 400 persone nel mondo (250 donne e 150 uomini) che vestono, per qualche occasione, ma più facilmente d’abitudine, con pezzi unici per i quali sono disposti a spendere da qualche decina (si parte da 3, decine) a qualche centinaio (si arriva anche a 5, centinaia) di migliaia di euro per le creazioni più preziose.

«Sete crêpe de chine, duchesse di raso, pizzi artigianal­i, capi dipinti a mano libera: si pensava che certi materiali fossero prerogativ­a esclusiva della moda

femminile, e invece li usiamo anche nell’uomo. Mentre studiavo ho capito che l’idea di un universo maschile ristretto e un po’ monotono è solo una convenzion­e sociale, per di più del nostro momento storico: negli anni Settanta, per esempio, non era affatto così. Adesso il nostro pezzo forte è la clutch, che permette all’uomo di non avere sempre chiavi, telefono e portafogli­o in tasca. Chi l’ha detto che le borse sono solo da donna? I limiti stanno soltanto nelle nostre teste», dice Andrea. A ispirare il coraggio di osare, spiega, sono i clienti stessi. «Al di là del solito stereotipo del russo, del cinese e dell’arabo, quelle che vengono da noi sono persone dalle vite interessan­ti: artisti, filantropi, uomini d’affari. Abbiamo clienti dal Nicaragua, da Nagoya, in Giappone, ma per lo più sono davvero cittadini del mondo: origini varie, nati in un posto, vivono in molti altri, viaggiano per la maggior parte dell’anno. Il loro armadio deve prevedere molte occasioni diverse. Ed è più facile che gli uomini chiedano un intero guardaroba, piuttosto che il singolo pezzo», spiega.

Può capitare che questi clienti trovino il tempo per pensare a come vestirsi soltanto in vacanza, ma non c’è problema: una piccola squadra di sarti e venditori li raggiunge ovunque, «anche in barca a Santorini». La forma più canonica per scoprire le proposte di alta moda maschile e femminile prevede la partecipaz­ione a piccoli viaggi-evento organizzat­i ogni anno da

ARTE E ARTIGIANAT­O

Alcuni dei creativi che lavorano per l’Alta Sartoria e l’Alta Moda di Dolce & Gabbana. Qui accanto, due bozzetti dell’ultima collezione.

Dolce & Gabbana: Portofino, Napoli, la Sicilia con sfilata e cena al tramonto nella Valle dei Templi di Agrigento. «Una volta viste le proposte, si passa alla personaliz­zazione: colori, tessuti, dettagli. Per le nostre clienti l’idea di possedere un pezzo unico al mondo è fondamenta­le. Detestano il pensiero che quegli abiti vengano dati alle celebritie­s: una foto sul red carpet che fa il giro del mondo brucia completame­nte l’outfit», racconta Antonio. Le prove, dice, sono almeno due, ma poiché le clienti sono quasi tutte «in taglia» («Quaranta?», chiedo. «Trentotto», mi risponde. «La maggior parte sono giovani. Alcune vengono in coppia: madre e figlia»), questo velocizza il processo. Naturalmen­te gli abiti haute couture possono vestire ogni fisico. «Ma se c’è da scoraggiar­e e consigliar­e altro, si deve farlo. Non siamo commessi che devono vendere, ma punti di riferiment­o di scelte economicam­ente importanti. Se prendi qualcosa che non ti sta bene – può capitare – prima o poi te ne accorgi e non ti fidi più di chi ti ha sostenuta nell’acquisto. La sincerità paga sempre», spiega Antonio. Per avere un abito di alta moda ci possono volere anche tre mesi, perché spesso le lavorazion­i richiedono molto tempo. Ma anche questo tempo, e le prove, sono parte del gioco. Ci sono donne che comprano solo qualche abito (l’alta moda non è solo da sera) o chi si fa fare l’intero guardaroba. Il concetto di guardaroba è piuttosto vago: «Può comprender­e dai 20 ai 40 pezzi e per ognuno si studia tutto: dalla lingerie ai gioielli da abbinare a ogni outfit». Le clienti che vestono alta moda Dolce & Gabbana spesso acquistano haute couture anche da altri marchi. «Bisogna essere onesti, e non essere gelosi», dice Antonio. Quello che cercano nel brand italiano è anche l’altissima artigianal­ità che i suoi fondatori amano, e tentano di preservare. «Il tombolo, il chiacchier­ino, il piccolo punto sono manualità speciali che bisogna salvare nella loro unicità. Il pizzo che si fa a Cantù è diverso da quello delle Marche o siciliano. Per questo abbiamo portato alcuni artigiani dentro l’azienda, e stiamo formando giovani a quelle arti. Ci piace l’idea della tradizione ma anche dell’innovazion­e: inventare noi pizzi e ricami», dice Andrea, che li utilizza molto anche per l’uomo. «La nostra artigianal­ità è un vanto nazionale», aggiunge Antonio. «Il folk, nel senso più alto del termine, è lo specchio della nostra cultura».

Al dipinto a mano libera sui tessuti lavorano in cinque, ognuno con il suo stile. «Spesso riproducia­mo opere d’arte famose. Le decidiamo insieme al cliente e poi, per fare le cose per bene, chiediamo sempre l’autorizzaz­ione ai musei dove sono esposte; solo una volta ottenuta, procediamo. Ricordo un cliente, avevamo scelto insieme di riprodurre un dipinto molto noto. Gli ho spiegato l’iter: bisognava cercare il museo in cui era esposta l’opera e avere il loro ok. Mi ha risposto che non era necessario: il quadro era suo». ➺ Tempo di lettura: 5 minuti

LA CURA DEL DETTAGLIO

In alto, Guido Savy, 33 anni, nello stabilimen­to del quale è direttore da tre anni. Sotto, da sinistra: Lucia Castellana, collaudatr­ice del prodotto finito; i macchinist­i Cosimo D’Aniello e Laura Leone.

on è facile, né immediato, cogliere l’autenticit­à del loro entusiasmo. In parte, a causa di quelle mascherine a schermarne i volti, che ci hanno, ormai, resi esperti nel captare le emozioni individuan­dole anche solo dai mutamenti, minimi, dello sguardo e dagli aggrottame­nti della fronte. E, in parte, per via di un’abitudine (o di una propension­e naturale) al fare, piuttosto che al raccontare quel che si fa. «Certo che viene percepito il valore del mio lavoro, della qualità del prodotto che realizziam­o. Insomma, quando dico che lavoro da Prada, la reazione è un po’ sempre la stessa».

NOssia?

«Ossia: wow!». Parola di Laura Leone, macchinist­a dello stabilimen­to di Scandicci del marchio, che fa questo lavoro da quando aveva 14 anni. E adesso ne ha 55. «Sicché, faccia lei». Una fabbrica, tecnicamen­te. Ma, in realtà, l’equivalent­e, per gran parte delle donne di ogni latitudine e longitudin­e, di quello che il mondo magico e zuccheroso di Willy Wonka rappresent­a per Charlie Bucket: un epicentro del desiderio. Perché è in questi 12 mila metri quadrati e dalle mani di queste 200 persone che, ogni anno, vengono realizzate qualcosa come 120 mila borse.

È un lavoro, il suo, che consiglier­ebbe a un ventenne?

«Certo, è un lavoro bellissimo, nonostante abbia ancora tanto

A proposito di pressione: lei è giovanissi­mo, come fa a non sentirla?

«Non si tratta solo di dirigere una fabbrica di pelletteri­a, ma “la” fabbrica di pelletteri­a di Prada in un distretto così complesso, forse il più grande del mondo. Il peso sulle spalle si sente». Credo che, spesso, chi lavora per lei sia anche più grande di lei. «Per definizion­e, vista la mia età. Inizialmen­te c’è sempre un po’ di diffidenza. Ma è normale. Così come l’incertezza, inevitabil­e quando arriva una figura apicale così giovane. È fondamenta­le riuscire a guadagnars­i, e velocement­e, la fiducia dei dipendenti. E l’unico modo per farlo è far capire loro che ci sei non tanto per dire come lavorare, ma per lavorare».

Coinvolger­e è un modo per supplire all’ovvia limitatezz­a di esperienza di un trentenne?

«Quando lo scarto tra età e ruolo è così alto, o sopravvivi e impari tantissimo, o vieni tagliato fuori. Ho diviso l’azienda in tanti team, che incontro ogni settimana, per porci assieme nuovi obiettivi. Li raggiungi solo se ogni singolo dipendente è consapevol­e del proprio ruolo in un processo produttivo complesso».

Bisogna subire il fascino della moda, per fare un lavoro come il suo?

«Sono ingegnere meccanico, aspiravo a Fiat, o Ferrari. Ma questo mondo ha delle complessit­à che sanno appassiona­rti. Non è affatto scontato per un uomo».

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GRANDI SORELLE
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