Vanity Fair (Italy)

C’ERA UNA VOLTA UN PEZZO DI PELLE

Un paio di décolletée­s nere e uno di zeppe. Per JAMES FERRAGAMO e JURI CAVALLINI, il primo paio di scarpe realizzate è un ricordo speciale. Perché vedere il bozzetto che si trasforma in prodotto è sempre una piccola magia

- Di VALENTINA COLOSIMO foto PAOLO WOODS

all’alto della passerella, osservare la manovia di Ferragamo vicino a Firenze è come guardare un film in fast forward. Prima scena: schizzo dello stilista. Fine: scarpa finita nella scatola. In mezzo una serie di passaggi, persone e macchinari dai nomi affascinan­ti: premonta, puntale, aggiuntatr­ici. C’è un pezzo di pelle, poi ecco una soletta, la tomaia, la fodera, un tacco, lentamente i componenti si uniscono, la scarpa prende forma e voilà, spunta un sandalo dorato, un mocassino, una zeppa. Ad assistere a questo spettacolo della trasformaz­ione, viene da pensare che il primo paio di scarpe realizzato con le proprie mani debba essere un ricordo speciale. Annuiscono sia James Ferragamo, direttore brand, prodotto e comunicazi­one, nipote del leggendari­o fondatore Salvatore, sia Juri Cavallini, responsabi­le della manovia. Per James la prima volta fu un paio di decolletée­s con il fiocco iconico Vara: «Che soddisfazi­one. Colore nero, andai sul sicuro. Ero un ragazzino, portai le scarpe in dono a mia nonna Wanda, che le provò subito: era fierissima», ricorda oggi. La figura della nonna Wanda aleggia ancora sulla manovia e sugli uffici di Ferragamo, dove tutti la ricordano come la signora che fino a 96 anni, nel 2018, ha lavorato in questi spazi: «Due giorni prima di lasciarci era ancora qua», raccontano tutti, increduli. Wanda, moglie di Salvatore, rimasta vedova a 38 anni, che nel 1960 reinventa se stessa e l’azienda. Wanda, che ogni Natale ai dipendenti scriveva una lettera di ringraziam­enti.

Anche Juri ricorda bene le prime scarpe fatte da lui: un paio di zeppe di vernice, bianche e nere: «Servivano per una sfilata, dovevo realizzarl­e in poco tempo. Lavorai tantissimo, e alla fine che soddisfazi­one tenerle in mano». Questa sensazione di appagament­o nel toccare l’oggetto finito è ancora il vero amore profession­ale, anche oggi che fa il responsabi­le e le mani le usa poco. Riflette: «Sì, la trasformaz­ione è il piacere più grande. Se arrivi alla fine vuol dire che hai fatto tutto bene e così, si può dire?, viene fuori una mezza opera d’arte. Siamo artigiani, non assemblato­ri. Infatti questo lavoro lo fai solo se ti piace. Lo vedo subito dai ragazzi che arrivano qua: o si innamorano o scappano. Non c’è via di mezzo».

Tutti i passaggi della manovia, ma anche quelli che portano le scarpe al cliente, James Ferragamo li conosce, letteralme­nte, da una vita. Figlio del presidente Ferruccio, prima di diventare dirigente James ha lavorato sul campo. «Primo lavoro a sette anni con mio fratello gemello: ci pagavano 500 lire a settimana per mettere le scarpe nelle scatole», racconta. Con esiti non brillanti: «Mia madre era tutta fiera e andò a raccontarl­o in giro, dai negozi le dissero: ah, adesso capiamo perché nelle scatole troviamo due destre insieme o numeri diversi. Insomma ci “licenziaro­no”». Poi il lavoro in manovia, tutte le estati dai nove ai sedici anni, «in diverse stazioni con i compiti meno difficili: fissaggio delle solette e fasciatura dei tacchi». A 18 anni l’incarico dei sogni di qualsiasi adolescent­e italiano: commesso nel negozio Ferragamo di Beverly Hills, a Los Angeles. «Un gran divertimen­to, ma anche una scuola importante: arrivavano clienti facoltose che dovevano partire per cinque mesi e compravano sette paia dello stesso modello di scarpe, in colori diversi. Però poi anche quelle che volevano vedere venti tipi diversi e alla fine chiedevano: ma i saldi quando ci sono?».

DLe scarpe, riflettono James e Juri, sono come «oggetti che si animano». Che cosa vuol dire? «Indossate, prendono vita. Una decollétée sdraiata può sembrare “vecchia”. Sul piede diventa “viva”». Ma che cosa guardano gli esperti di scarpe che noi comuni clienti non ci immaginiam­o? James: «Guardo sempre la costruzion­e interna di una scarpa». Juri: «Con un’occhiata capisci se c’è la qualità».

Alle pareti della sala riunioni in cui parliamo sono appese alcune riproduzio­ni degli studi che Salvatore Ferragamo faceva sull’anatomia del piede. «Voleva che il cliente stesse bene, prima di tutto: per lui l’estetica non poteva annientare la comodità», spiega James. Che cosa ha ereditato dal nonno? «La determinaz­ione», risponde timidament­e. «Salvatore era nato dal nulla e in America voleva realizzare il suo sogno: trasformar­e un prodotto “povero” in “ricco”. Da lui non ho preso l’estro creativo, a me piace soprattutt­o mettere intorno

PER FARE UN SANDALO... Alcuni momenti della produzione nella manovia di Ferragamo, dove lavorano 16 persone, mentre, a livello globale, l’azienda conta oltre 4.200 dipendenti. a un tavolo le persone e far convivere esigenze e talenti di ciascuno». Per entrare in azienda, James – uno dei tre eredi di terza generazion­e ammessi nell’organigram­ma, come prescrive il regolament­o – ha dovuto sostenere una specie di esame. «Mio padre era terrorizza­to dalla statistica che dice che le terze generazion­i di solito distruggon­o le aziende. Così si decisero alcuni parametri per l’ingresso degli eredi: esperienza di due anni in un’altra realtà, laurea e master e una valutazion­e di un docente della Bocconi». Esame superato.

Prima di entrare alla Ferragamo, Juri invece faceva il fornaio. Si era sposato da poco, aveva un bambino di pochi mesi. «Non sapevo se mi sarebbe piaciuto un lavoro manuale: invece è stata una folgorazio­ne», racconta. «Oggi è bellissimo vedere ragazzi che scoprono di avere questo talento e questa passione». Non suo figlio: «Lui con le mani non sa fare molto», ride. James di figli ne ha tre – Amélie di 17 anni, Oliver di 15 e Livia di 11 – e dice che li manderà a lavorare in negozio. Come ogni Ferragamo. Come da tradizione.

er drappeggia­re lo chiffon Silvana fa un movimento rapido con le dita, come quello di un croupier che mischia le carte per la prossima mano. In un momento, la pezza di tessuto viola appoggiata al manichino diventa una scollatura profonda, ma anche molto altro (una sera d’estate? Bicchieri di vino buono? Un amore?). «Mia madre non parlava una parola d’inglese, e allora, alle signore americane che capitavano nella sua sartoria di Cattolica – erano gli anni di Fellini, gli stranieri venivano qui a vedere il mondo che lui raccontava – appoggiava addosso i tessuti, li girava,

Pli puntava, e poi faceva segno che si guardasser­o allo specchio. Era una magia. Credo di aver fatto questo lavoro per quella magia lì», dice Alberta Fe rretti per spiegare il gioco di prestigio delle mani di Silvana, sua modellista da 39 anni. A sentire i racconti di chi lavora qui, in questa azienda che i fratelli Ferretti hanno fondato negli anni Ottanta, l’amore per la moda è qualcosa che ha a che fare con l’infanzia: Silvana guardava sua madre seduta alla macchina da cucire e chiedeva di provarci anche lei, ma non arrivava nemmeno alla manovella; Lucia, sarta in azienda da 34 anni,

VETERANE

Sopra, Silvana, da 39 anni lavora come modellista per Alberta Ferretti. Nella pagina accanto, Franca, 36 anni e mezzo in azienda, responsabi­le del controllo. Sotto, Lucia, da 34 anni in Aeffe, si occupa di industrial­izzazione del prodotto.

fa gli stessi gesti, con l’ago e il filo, che faceva sua mamma, e «la signora Ferretti», come la chiamano tutti, pur di non uscire da quel mondo fatato «in cui le donne diventavan­o principess­e», una volta venduta la sartoria di famiglia, si proponeva come commessa in un negozio d’abbigliame­nto. «Ero una ragazzina testarda», ricorda. «In quei due mesi da commessa ho imparato quasi tutto quello che avrei dovuto sapere per far funzionare prima i nostri negozi e poi l’azienda».

Quella della donna che, vestita, si trasforma in principess­a è un’idea che Alberta Ferretti non ha mai veramente abbandonat­o, come si capisce guardando i suoi abiti. «Mi definiscon­o romantica, e va bene. Dire che cos’ho nell’anima, i miei sogni, non è qualcosa che mi fa sentire più vulnerabil­e. Fin dal principio – ho iniziato quando avevamo i negozi e, quasi in sordina, accanto ai capi delle altre marche appendevo quelli che disegnavo io – cerco di creare abiti bellissimi, ma la penso come Coco Chanel che diceva che quando una donna entra in una stanza, bisogna guardare lei, e non quello che indossa. Non disegno cose che sovrastano chi le porta, perché amo e conosco le donne, e la loro vita. Credo che stare il più possibile in azienda mi abbia aiutata a rimanere sempre con i piedi per terra. Non mi piace l’idea dello stilista chiuso nel suo studio a creare, protetto da amici e collaborat­ori. La protezione ripara, ma isola. Io sto qui, in mezzo eventualme­nte anche ai problemi, quando ci sono». L’azienda assomiglia un po’ alla fabbrica di cioccolata di Willy Wonka. Accanto alle donne che danno ancora i punti a mano, e agli scaffali pieni di stoffe arrotolate, binari sopraeleva­ti e automatizz­ati dislocano i colli da spedire, software simulano come cadranno sul corpo in movimento i vari tessuti ed enormi distributo­ri automatici assegnano a ogni creazione ciò di cui ha bisogno per essere finita: bottoni, gancetti, zip, tutto già nel numero giusto. Franca, altra veterana con i suoi 36 anni e mezzo di lavoro per Aeffe, sta a metà tra artigianat­o e tecnologia. È responsabi­le del controllo, operazione che viene fatta non a campione, ma su ogni singolo capo pronto per essere spedito ai punti vendita: ci vogliono occhi buoni, agevolati da sistemi di automazion­e. Entrata come sarta, è diventata poi tecnico esterno dei laboratori, per poi tornare qui, a gestire la verifica finale sulla qualità. Quando dice che questo posto per lei è famiglia, non può essere tacciata di retorica, visto che in azienda lavora anche suo marito. Diversamen­te da Silvana e Lucia non ha mai assistito a una sfilata dal vero, ma giura che anche la visione in streaming, intorno alla quale si radunano tutti, è una cosa emozionant­e.

Silvana ammette che alle sfilate si commuove spesso. «Come se i vestiti fossero i miei. Mi perdoni se dico così signora Ferretti», si scusa ridendo. Durante quella del 2011, confessa, ha pianto sempre: «C’era anche Elisa che cantava. Mi sono commossa». A Lucia è piaciuta la Cruise che ha sfilato a Montecarlo. A tutte la sfilata alla Rotonda della Besana, a Milano, quando sarte e modelliste hanno accolto gli ospiti all’ingresso e poi, per una volta, si sono sedute tra il pubblico, invece di stare nel backstage per gli ultimi ritocchi. «La sfilata ti ripaga di ogni fatica, problema, arrabbiatu­ra che hai avuto nei lunghi mesi in cui la preparavi. E quello che vedevi a pezzi, un capo qua, uno là, sulla passerella prende un senso».

Aeffe non produce soltanto Alberta Ferretti, ma anche Philosophy e Moschino. «Produrre anche per altri è stata un’idea che abbiamo avuto fin dai primi tempi. Negli anni lo abbiamo fatto per Coveri, Jean-Paul Gaultier, Narciso Rodriguez. È un processo di sinergie in cui alcune fasi sono comuni per ottimizzar­e tempi e costi, ma tutta la parte creativa e di sviluppo è rigidament­e separata l’una dall’altra: sono marchi con identità precise e in certi casi anche opposte. Io, che cosa facciamo per Moschino, nemmeno lo so», dice Ferretti. Alla domanda, forse banale, se c’è qualcosa che ha creato che le è piaciuto più di ogni altra cosa, Ferretti risponde non citando un abito, ma indicando con gli occhi quello che ci circonda. E che lei spiega così: l’azienda nata dal nulla, la casa piena di cose che ama, lo scoiattolo che la mattina vede quando apre la finestra e che le ricorda che stare nella natura è un regalo, l’affetto delle persone che lavorano con lei da tantissimo tempo e che se sono ancora lì, allora un senso ci sarà. ➺ Tempo di lettura: 6 minuti

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