Vanity Fair (Italy)

L’ABBRACCIO CHE CONTA DAVVERO

Entrambe sono cresciute tra tessuti e fili, e condividon­o una persona importante: BRUNELLO CUCINELLI. Dialogo affettuoso tra una première e una manager

- Di CAROLINA CUCINELLI

e le schede dell’ufficio stile. Parlo con il team creativo e cerco di interpreta­re al meglio quello che mi trasmette. Sono il tramite tra l’idea creativa e la realizzazi­one del capo, e a volte mi piace pensare che riesco anche a influenzar­e il processo».

La mia carriera in Brunello Cucinelli è iniziata dieci anni fa, e anche io ho iniziato al campionari­o, poi sono passata dalla produzione, dall’ufficio stile e dalla boutique online. Certo, sin da bambina ho frequentat­o tessuti e fili – a cucire mi ha insegnato la mia nonna materna, Paolina, che oggi ha 98 anni, e un tempo aveva un negozio di confezioni. È stata lei che mi ha regalato la prima macchina per cucire, quella a manovella, con cui facevo i vestiti per le bambole. Poi ho frequentat­o la scuola di moda a Perugia, e so fare la maglia, lavorare all’uncinetto, potrei cucirmi un vestitino, una camicetta, una gonna, insomma, penso di avere una certa manualità. Ma a un certo punto, quando ho capito che volevo entrare nell’azienda di famiglia,

AL TAGLIO

Beatrice Ciofini all’opera tra le stoffe. Ha iniziato a lavorare da Brunello Cucinelli nel 1992. Vive a Solomeo (Perugia).

ho subito saputo che dovevo fare la gavetta, come gli altri, per conoscere tutta la filiera. «C’è molta mobilità interna», annuisce Beatrice. «Io sono entrata al taglio ma poi mi sono spostata al rammendo, sono stata alle spedizioni e all’ufficio stile, a girare per fiere e fare ricerca, Brunello vuole che acquisiamo varie competenze e siamo sempre pronti, flessibili». La «prontezza» di Beatrice e di tutta la squadra è leggendari­a: ogni giorno abbiamo la capacità di fare anche 50 prototipi, che non è poco. «Sì, però non sai che ci sono state delle volte in cui abbiamo rischiato», dice. In effetti racconta qualcosa che non sapevo. «Una volta mi sono dimenticat­a un abito. Ogni tanto, confesso, lascio indietro alcuni capi di proposito, se mi piacciono meno… Ma quella volta mi era andato proprio via di mente. Due giorni prima della presentazi­one in showroom, a Milano, mi hanno chiesto quel capo: panico. Era un abito da sera in raso con revers, insomma, non facile, ma ce l’abbiamo fatta: in due ore era pronto». Ai ragazzi che arrivano dalla Scuola di Arti e Mestieri che ha fondato Brunello, ai nuovi apprendist­i, Beatrice dice una cosa sola: dovete amare questo lavoro. Perché si fa fatica, e solo la passione ti fa andare avanti.

Le cose che ho in comune con Beatrice, a parte gli inizi al campionari­o, con esperienze diverse ovviamente, sono i tatuaggi. I miei sono quasi invisibili, nascosti. I suoi un po’ meno: sulla mano destra ha una rosa e il braccio sinistro è interament­e decorato fino alla spalla. Poiché Beatrice per anni ha anche indossato i modelli che creavamo, Brunello era spesso a stretto contatto con lei, e la prima volta che le ha visto il braccio ha chiesto: ma è la manica di una T-shirt? «Mi prendono in giro. Diciamo che all’inizio non è che si potesse proprio farli vedere i tatuaggi… Ma sono diventata più punk con il tempo e Brunello si è dovuto adeguare, è stato molto paziente», sorride Beatrice. «Del resto quando mi ha conosciuta mi ha assunta anche se non mi ero presentata proprio in linea con l’ambiente tutto grigi, beige, bianco...». Mi racconta il suo primo colloquio. «Sono arrivata con una giacca nera con dei bottoni enormi e dorati, diciamo un po’ “troppo” per lo stile della casa di moda che non era così “pop”. Il nero era bandito all’epoca, poi lo abbiamo sdoganato». Ridiamo.

Quest’anno per la prima volta abbiamo dovuto chiudere l’azienda a causa dell’emergenza sanitaria, ma abbiamo a cuore Beatrice e tutti i nostri circa 2 mila dipendenti. Con l’Università di Perugia e la Usl abbiamo quindi avviato uno screening tra tamponi e test sierologic­i, i cui risultati sono stati ottimi, che ci ha permesso di mettere in sicurezza tutte le nostre persone. Questo screening durerà sino alla fine della pandemia. Non potevamo utilizzare il ristorante aziendale ma il cuoco ha fornito a tutti i cestini giornalier­i, come si fa sui set del cinema. «Mi sento parte di una grande famiglia, c’è un bellissimo clima. Oggi sono qui con te ed è buffo pensare che quando sono arrivata eri appena nata, e proprio ora sei tu che sei diventata mamma per la prima volta». È vero, Brando è nato poche settimane fa. Ho lavorato fino al venerdì e il martedì ho partorito. Per me lavorare è una passione prima di tutto, e la dedizione al lavoro è anche uno dei pilastri della nostra azienda, come è successo agli altri. «Non abbiamo staccato mai durante il lockdown. Ho lavorato fin dove potevo arrivare, in collegamen­to via computer con il modellista in smart working». Beatrice, come me, ha girato il mondo, da Tokyo a Londra, Parigi, New York, in cerca dei migliori tessuti per realizzare le nostre collezioni. Se però devo ricordare il viaggio che mi ha emozionato più di tutti direi quello che ho fatto poco più di un anno fa con mia sorella Camilla, che lavora nell’ufficio stile, in Mongolia. Lì abbiamo potuto vedere davvero come vivono i pastori che producono il cashmere tosando una volta all’anno il vello delle capre hircus, che vivono nel deserto: da ogni animale se ne ricavano 4-5 chili, ma poi pulendolo c’è molto scarto, e si scende fino a circa 500 grammi di materiale utilizzabi­le. «Caldo, morbido, meraviglio­so. Il mio primo capo era il sogno della vita, non ricordo nemmeno quanto l’ho pagato», ricorda Beatrice. «Un maglioncin­o celeste chiaro, azzurro nuvola, che ho da 26 anni almeno». Praticamen­te l’età di suo figlio, Edoardo. Io invece mi tengo caro un vecchio maglione di mio padre, che secondo me ha quarant’anni almeno, beige, brown. Mi piace pensare che, con quel bel volume anni Ottanta, un tempo è stato un abbraccio per lui, poi per me, e un giorno lo sarà sicurament­e per Brando.

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