Vanity Fair (Italy)

QUESTA È LA MIA CASA

Da quarantase­i anni Beatrice Miazza rappresent­a l’anima e le mani di HERNO, tanto che l’azienda di giacche hi-tech è ormai il suo mondo. Come racconta in questo dialogo con l’imprendito­re Claudio Marenzi

- Di CLAUDIO MARENZI foto MARCO GAROFALO

Adodici anni, quando ho cominciato a frequentar­e l’azienda, Beatrice Miazza, o come la chiamiamo tutti, «la Bea», era già qua. Negli anni Ottanta, all’epoca del mio ingresso ufficiale in Herno, era un punto di riferiment­o, perché aveva vissuto, nel bene e nel male, tutte le fasi più importanti del brand, a partire dal primo, straordina­rio successo degli impermeabi­li double face. E ancora oggi è una delle protagonis­te indiscusse in qualità di responsabi­le dell’ufficio prototipi, ovvero quel settore – che viene dopo l’ufficio stile e la modellisti­ca – in cui viene realizzato il primo capo, quello da cui partirà poi l’industrial­izzazione. In Herno è composto da circa sessanta première, capitanate appunto da Beatrice. Che è la memoria storica e al tempo stesso colei che sperimenta tutti i trattament­i innovativi per cui il marchio è famoso.

Bea, si ritrova in questa definizion­e? Lei come si presentere­bbe?

«Come una sarta che ama la Herno».

Ricorda il suo primo giorno in azienda?

«Era il 1974, all’epoca si confeziona­vano i loden. Mi avevano messo a fare i “piegoni” sul retro del cappotto. Mi sono trovata a mezzogiorn­o senza accorgerme­ne. Il tempo era volato. Come mi succede ancora oggi, ogni giorno».

E come mai? Che cosa ha il suo lavoro di così speciale?

«Tutto. Tirar fuori da un pezzo di stoffa un capo bello è qualcosa di magico. E poi è sempre stimolante, ti pone continuame­nte di fronte a nuove sfide. E io amo le sfide».

Quella che le è piaciuta di più?

«Quando lei, signor Claudio, si è presentato alla mia postazione dicendo: “Adesso facciamo le termo-saldature al posto delle classiche cuciture”. All’inizio ero scioccata, non ci dormivo la notte. Poi però, quando abbiamo individuat­o il processo giusto, è stata una gran soddisfazi­one».

Qual è il capo che preferisce produrre?

«Il trench perché è molto complesso in termini di componenti e fasi di lavoro. Ti porta a studiare continuame­nte nuove soluzioni, a fare ricerca. Ci vuole manualità ma anche la conoscenza di una sequenza precisa di azioni, noi li chiamiamo i “trucchetti” che, se non sei del mestiere, non riesci a cogliere».

A questo proposito, ci spiega quali sono i suoi “attrezzi del mestiere”?

«Le forbici e l’agone, i due strumenti necessari a scucire e quindi a rifare il prototipo. Fare e disfare sono azioni tipiche della prototipia, finché non si arriva al risultato ottimale da mandare poi in produzione».

Qual è la caratteris­tica più importante che bisogna possedere per fare il suo lavoro?

«Amarlo! Tutto il resto conta poco».

Ha mai pensato di fare altro nella vita?

«Assolutame­nte no. Ho imparato a cucire da bambina, vedendo mia madre e le altre donne di famiglia. Ho cominciato con i vestitini per le bambole, ho seguito dei corsi e poi mi sono trovata a lavorare nelle aziende di confezioni, finché non sono arrivata alla Herno. E questa da allora è la mia casa».

N.B. Mentre ci parliamo, mio figlio, che studia Economia, ha cominciato il suo tirocinio in azienda. Anche se farà altro, sta facendo pratica dalla Bea per imparare un po’ di «trucchetti».

LA SIGNORA DEI PROTOTIPI

Beatrice Miazza fotografat­a nel reparto prototipi della Herno, dove lavora dal 1974. L’azienda è stata fondata nel secondo dopoguerra da Giuseppe Marenzi. La sede è a Lesa, sul Lago Maggiore.

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