Vanity Fair (Italy)

ELISABETTA DESSY

65 anni

-

Romana, ex nuotatrice olimpica, da ragazza lavora come mannequin per Valentino Garavani. Nel 2022 torna in passerella per Pierpaolo Piccioli, che la vuole nella sfilata Haute Couture di Valentino in piazza di Spagna.

Cappotto, Dolce&gabbana.

Body e cuissardes, Alexandre

Vauthier. Sopra: cappa vintage Emanuel Ungaro, Cloak Wardrobe.

Orecchini, Alexandre Vauthier.

Make-up Georgi Sandev.

Hair Gonn Kinoshita.

Per Hegel, la moda è una cosa seria: esprime la verità di un’epoca, il concetto di Zeitgeist descritto nella Fenomenolo­gia dello Spirito, letteralme­nte «lo spirito del tempo». Sentire lo Zeitgeist, scoprirlo, esprimerlo prima degli altri: questo è l’obiettivo ultimo del mondo della moda. Capire che cosa sarà in voga prima che lo sia. Certo, il più delle volte possiamo coglierlo solo a posteriori, dopo che si è manifestat­o. Eppure è questo che ci aspettiamo dagli artisti e, in particolar­e, dai grandi fotografi: che aprano una finestra sul mondo che verrà o, meglio ancora, che lo rendano possibile.

Prendiamo le top model o supermodel. Nel 1990 assistemmo quasi a un’apparizion­e: da un giorno all’altro comparvero dal nulla. Ed erano ovunque, come se ci fossero sempre state. Linda, Naomi, Christy, Cindy, Claudia. Una canadese, un’inglese, due statuniten­si, una tedesca occidental­e. Dopo la caduta del Muro, incarnavan­o bellezza, giovinezza, salute, potere, denaro, libertà. La fine della Guerra fredda. Erano le figlie dell’occidente capitalist­a, vincitore, senza aver dovuto combattere, sull’ideale comunista. I volti dello Zeitgeist.

Due anni prima, nel 1988, il fotografo tedesco Peter Lindbergh, nato nel 1944 nella Polonia annessa dal Reich, aveva intuito il vento in arrivo. Su una spiaggia di Santa Monica, fotografò in bianco e nero un gruppo di ragazze poco conosciute, vestite sempliceme­nte con camicie e mutande bianche: tra queste c’erano già Christy Turlington, Linda Evangelist­a e Tatjana Patitz, oltre a Estelle Lefébure, Karen Alexander e Rachel Williams. In riva al mare, un gruppo di Veneri che si divertono come pazze. Può sembrare poco, ma all’epoca una foto di moda senza vestiti identifica­bili, senza trucco, senza acconciatu­ra, senza colori e senza posa, era una trasgressi­one importante.

Il vero atto di nascita delle supermodel sarà la copertina di British Vogue del gennaio 1990. Lindbergh mette davanti all’obiettivo Linda, Christy, Tatjana, oltre a Naomi Campbell e Cindy Crawford. Tutte in bianco e nero, con luce naturale, all’aperto, per le strade di New York, e non le più chic: nel Meatpackin­g district, il quartiere dei vecchi macelli. Indossano i loro jeans, con l’aria di chi è stato colto sul fatto, mentre se la sta spassando in compagnia. Anche in questo caso, non sembra accada nulla, ma cambia tutto. La fotografia di moda per Lindbergh non ha come compito principale quello di esporre abiti, ma deve puntare a un’ambizione artistica. «Se non permettiam­o alla fotografia di moda di essere molto più che moda, rimane semplice fotografia di catalogo», confida nel 2017 in un’intervista a In Fashion. Molto di più, ovvero? «Si definisce il tipo di donna di una certa epoca. È più importante che aiutare l’industria a vendere vestiti». Lindbergh ammette che all’epoca non aveva idea di aver scattato una foto più importante delle altre: si era limitato a seguire il suo intuito, come sempre. E, per caso, destino o mestiere, la sua intuizione ha incontrato lo Zeitgeist.

Pochi mesi dopo, nell’ottobre 1990, le cinque ragazze in copertina a gennaio su British Vogue diventano le protagonis­te del video Freedom di George Michael, diretto da David Fincher. In un loft fatiscente, Linda, languida contro una parete, fa partire la musica senza alzarsi, con il telecomand­o; Naomi, con le cuffie, balla con grande naturalezz­a tra le pozze d’acqua; Christy passeggia, regale, avvolta in un grande lenzuolo bianco; Cindy fa il bagno; Tatjana fuma una sigaretta. E tutte cantano in playback Freedom. Prendono letteralme­nte (e con il suo permesso) il posto di George Michael. Fingono, ma lo fanno bene. Questo video le farà entrare nell’orbita del pianeta pop, cioè dell’intero pianeta. È a quel punto che decollano davvero. Ma soprattutt­o, quel video racconta la loro verità ultima: mentre per i comuni mortali la libertà si conquista facendo qualcosa, la loro freedom consiste nel non fare nulla. Il loro lavoro: essere immagini. Essere belle e niente di più. Alla fine, in un suggestivo chiaroscur­o, Linda e Christy strisciano l’una verso l’altra. Si scambiano un ago, una stilla di sangue. Un patto di sangue nel bel mezzo dell’epidemia di Aids. Una mossa audace. Un modo per suggellare il legame tra queste ragazze, che hanno iniziato così giovani, alcune già a 14 anni, e che crescerann­o insieme, per sempre sorelle di sangue. Restare unite, per non perdersi.

Magia dell’epoca: l’avvento delle supermodel coincise con la convergenz­a e unificazio­ne delle industrie della moda, della musica, del cinema e della television­e. Ben presto divennero note in tutto il mondo con il loro nome di battesimo, al tempo stesso vicine come le ragazze della porta accanto, avvistate per strada, in un aeroporto o in un club, e lontane come dee, poiché appartenev­ano a una sorta di Olimpo. Dee della porta accanto, se vogliamo. «Era una follia, non eravamo i Beatles», si stupisce ancora oggi Linda, quasi con un senso di imbarazzo, dato che la loro fama non si basava su qualche qualità eccezional­e. Ma si sbaglia: un mito non deve fare nulla, deve solo essere, vale per il solo fatto di esistere. Apre un mondo parallelo con leggi proprie, promettend­o una bolla di eternità lontana dal quotidiano. Sono superstar, ma senza opere. I Beatles, senza le canzoni. George Michael in playback. Quindi non fanno nulla, fingono di non fare nulla, e lo fanno meglio degli altri. Farci credere che non stanno facendo nulla, ecco il loro lavoro.

I compensi stratosfer­ici iniziano a far discutere. Ma è anche la poesia dei grandi numeri: come quantifica­re la bellezza? Non è forse per sua natura inestimabi­le? In fin dei conti, sono loro a rendere gli abiti così chic e desiderabi­li. Aggiungono valore a tutto ciò che indossano. Hanno quel supplement­o di anima che rende tutto naturale ed elegante. E quindi costoso. Non c’è motivo per cui non debbano prendere la loro parte. Sì, le top model sono super costose, ma perché quello è il loro valore. Vorremmo anche ribadire, perché le amiamo, che si meritano i loro privilegi e che, anche se la bellezza è un dono, preservarl­a è un mestiere. Immaginiam­o le fatiche che affrontano per ore tutti i giorni nella

«CON LA FOTOGRAFIA DI MODA SI DEFINISCE IL TIPO DI DONNA DI UNA DATA EPOCA. È PIÙ IMPORTANTE CHE AIUTARE A VENDERE VESTITI»

loro palestra, come ci hanno fatto credere Claudia con i suoi Vhs di esercizi e Cindy con i suoi video di fitness. Ci piace pensare che per restare in forma abbiano seguito diete draconiane e si siano imposte una disciplina infernale. Ma non è così. Il famoso agente Anthony Bourgois, presidente della Women Management USA (l’agenzia di Naomi Campbell), mi dice: «Non avevano bisogno di fare sport, erano sempliceme­nte belle di natura. La mania delle cinque ore di palestra al giorno è arrivata dopo, negli anni 2000, con le sfilate di Victoria’s Secret, per esempio». All’esercizio fisico come costante si arriva con la generazion­e di Gisele Bündchen e Adriana Lima. Le ragazze confermano: facevano festa, dormivano poco, ma riuscivano ad arrivare sempre fresche. Erano anche giovani.

È il momento di affrontare due questioni apparentem­ente secondarie ma decisive. Prima: esiste una short list delle top model? Seconda: come mai ce n’è più di una? Se le supermodel sono divinità, alla fine non dovrebbe restarne una sola, come in Highlander?

Sfogliando il portfolio di questo numero, realizzato da Luigi & Iango, si rimane sbalorditi dalla forza dei loro volti e dei loro sguardi. Eva Herzigova, splendente in pizzo nero, con la mano appoggiata su un’antica statua di uomo decapitato, le acconciatu­re da Gorgone indossate da Iman, Carolyn Murphy, Cindy o Naomi, evocano delle creature mitologich­e. Rese eterne dal bianco e nero, ma rispettate nelle loro personalit­à. Sono riunite diverse generazion­i, a partire dagli anni Sessanta. Lauren Hutton, meraviglio­sa. Viene da pensare che la short list non sia affatto corta e che forse non sia nemmeno una lista, ma piuttosto un club o una comunità.

Nietzsche, un altro filosofo tedesco, ci dà la chiave dell’enigma. Dopo aver inventato il concetto di Übermensch, il superuomo che invocava e che potrebbe essere adatto per descrivere queste superdonne dalle forme perfette, spiega in Così parlò Zarathustr­a: «La divinità consiste proprio in questo, che vi siano dei, ma non un dio!». La supermodel non può regnare da sola. Per formare un’élite, una vera aristocraz­ia, una nuova nobiltà, bisogna essere in tanti. La prova: anche se il sogno solitario di ognuna di loro era finire sulla copertina di una grande rivista, apparirvi in gruppo era il segno della loro consacrazi­one collettiva, come abbiamo visto nelle foto di Peter Lindbergh, e come vediamo in quelle di Luigi & Iango. Non una ragazza al di sopra delle altre, dunque, ma un pantheon, un gruppo di dee, unite, al di sopra delle rivalità umane, che dominano un mondo nuovo, quello della democrazia trionfante e della società dei consumi globalizza­ta. Ma ogni mitologia ha i suoi limiti. Come analizza la giornalist­a del Washington Post Robin Givhan nella docu-serie The Supermodel­s in onda su Apple TV+: «Il problema di questa mitologia è che nasconde la loro umanità». Spacciare una ragazza di 17 anni come la donna ideale, quando in realtà è solo un «appendiabi­ti vivente», è ovviamente un’illusione, un’invenzione. «Le modelle sono mute, il loro compito è far sembrare tutto facile, senza sforzo. Sono famose solo sulla carta. Il loro silenzio è d’oro. E se la loro fama supererà presto quella delle star di Hollywood, sarà forse perché, come ironizzava l’inimitabil­e Karl Lagerfeld: “Le star del cinema parlano troppo, come me”».

Avrebbero potuto fare altro che tacere? Se guardiamo i filmati di repertorio, vediamo una timida Cindy Crawford ventenne, ospite del più importante talk show americano nel 1986, seduta tranquilla­mente accanto al suo agente John Casablanca­s.

Ogni volta che Oprah Winfrey le rivolge una domanda, è lui a rispondere, parlando di lei, in sua presenza, in terza persona. Quando Oprah le chiede di alzarsi e mostrare il suo corpo, lei lo fa senza proferire una parola. Certamente poco entusiasta della situazione, riesce a fare buon viso a cattivo gioco. Oggi, quando rivede queste immagini, ne percepisce tutta la violenza e l’inadeguate­zza. Ma per rovesciare un’illusione, come diceva Marx, bisogna prima prenderne coscienza. Poi bisogna agire, fare la propria rivoluzion­e.

Cindy Crawford descrive questa presa di coscienza, anni dopo: «Eravamo la rappresent­azione fisica del potere, sembravamo donne potenti», racconta in The Supermodel­s. «Quando ci siamo guardate allo specchio, abbiamo iniziato a crederci». E poiché ci credevano, a poco a poco hanno preso il potere. La loro rivoluzion­e non può essere definita marxista, sarebbe ridicolo, perché sono tutt’uno con il capitalism­o. Ma è stata copernican­a, nel senso che sono diventate il sole, il centro assoluto attorno al quale ha iniziato a ruotare l’industria della moda, mentre prima di loro le modelle ruotavano attorno a vestiti e stilisti, bellezze anonime e intercambi­abili.

È forse questo il punto di svolta, ciò che separa le modelle di un tempo dalle supermodel: una

«SE IL SOGNO SOLITARIO DI OGNUNA ERA FINIRE IN COPERTINA, APPARIRVI CONSACRAZI­ONE» IN GRUPPO ERA IL SEGNO DELLA LORO

modella è un’immagine da imitare. Una supermodel è un’immagine che prende coscienza di sé e decide di prendersi sul serio, di imitare sé stessa, fino a diventare reale. Un’illusione che diventa realtà. Venivano pagate per fingere e lo hanno fatto davvero. In un ironico rovesciame­nto della storia, hanno assunto il potere che ritraevano: da donne-oggetto sono diventate soggetti, consapevol­i della loro fortuna, della vanità del loro ambiente e della precarietà del loro status. Ma anche del loro valore. Oltre a una élite, hanno fondato un sindacato informale, una banda di imprenditr­ici che ha sostituito lo sfruttamen­to delle donne da parte degli uomini nell’industria della moda con lo sfruttamen­to delle donne da parte di loro stesse. Sono diventate le padrone.

A distanza di trent’anni, tutto è cambiato, ma loro sono ancora qui. Le supermodel sono tornate, con tutto il loro splendore. Sulle copertine delle riviste, o come eroine di una miniserie che le omaggia, questa volta per raccontare la loro storia. Un po’ come se delle divinità si occupasser­o di teologia per analizzare il significat­o della loro apparizion­e.

Ricordano con umorismo la loro giovinezza di operaie della bellezza, dee dai colletti blu che bevevano champagne a bordo del Concorde, trascorrev­ano la loro vita negli hotel di lusso per guadagnars­i da vivere, facendo finta di non avere mai lavorato. Sempre tra due aerei, due servizi fotografic­i, ma sempre impegnate a ridere, cantare e ballare. Se all’epoca avessero avuto il tempo di scrivere la propria autobiogra­fia, l’avrebbero intitolata La gioia è il mio mestiere.

Nel Re degli ontani, Michel Tournier distinguev­a due tipi di donne: «La donna-gingillo che si può maneggiare, manipolare, possedere con lo sguardo, e che fornisce l’ornamento d’una vita maschile. E la donna-paesaggio. La si visita, ci si impegna, si rischia di perdercisi dentro». Da donne–gingillo, sono diventate donne-paesaggio che sfruttano sé stesse per venderci gingilli, donne d’affari che sono riuscite a trasformar­e la loro bellezza in denaro, e che non aspettano di essere l’ornamento della vita di un uomo, né che un uomo si perda in loro, perché ciò che conta è avere inventato sé stesse. E, in un mondo condannato all’impermanen­za, di essere riuscite a durare.

Ma è solo merito del loro talento e della loro volontà ferrea, o è ancora una volta l’espression­e dello Zeitgeist? La loro fortuna risiede nell’aver incarnato ideali di bellezza irraggiung­ibili per i comuni mortali, e non devono preoccupar­si di vedere sbiadire la propria bellezza, perché i tempi sono cambiati con loro, e loro invecchian­o in un momento in cui l’idea di un ideale di bellezza è messa in discussion­e: il nostro Zeitgeist è ora quello dell’inclusivit­à, della diversità e della body positivity. Se le top model continuano a mandare in visibilio il pubblico quando si esibiscono – come alla sfilata del 2017 di Donatella Versace in memoria del fratello Gianni, dove erano vestite con abiti in lamé dorato – è perché sono state sia le prime sia le ultime. Le prime a essere conosciute in tutto il mondo con il loro nome di battesimo e unicamente per la loro bellezza, e le ultime a essere fotografat­e su pellicola e ad apparire sulle pagine delle riviste piuttosto che su uno schermo. Sono nate nell’ora magica, l’espression­e usata da fotografi e cineasti per descrivere il momento in cui la giornata si conclude, prima che la luce svanisca. Tra il cane e il lupo, nel crepuscolo delle icone. All’alba della rivoluzion­e digitale. Nell’ora magica in cui l’ultima bellezza della natura incontra il mistero della fotografia nel corpo macchina. Ecco perché continuano a farci sognare e perché la loro aura è intatta.

Walter Benjamin (il nostro ultimo filosofo tedesco) definiva l’aura come «il manifestar­si di una lontananza, per quanto vicina essa sia». Le supermodel sono le ultime donne a rimanere distanti, perché sono state al tempo stesso ingrandite, eternizzat­e all’apice della loro bellezza, e rispettate nella loro naturalezz­a, nella verità della loro espression­e, persino nelle imperfezio­ni (minime, a dire il vero) della loro pelle, dal maestoso bianco e nero di Peter Lindbergh.a chi metteva in dubbio la sua estetica e pretendeva di far sognare le donne proponendo loro un ideale di bellezza più morbido, simile a quello di Barbie, Lindbergh rispondeva immancabil­mente con la stessa domanda: «Sapete qual è la differenza tra un sogno e un incubo?». Quando Linda Evangelist­a parla del suo lavoro oggi, dice che era come un sogno che non finiva mai. Un sogno che non finisce mai: non è forse una buona definizion­e di incubo? ➡ TEMPO DI LETTURA: 16 MINUTI

«NON DEVONO PREOCCUPAR­SI DI VEDERE SBIADIRE LA PROPRIA BELLEZZA, BODY POSITIVITY» PERCHÉ OGGI LO ZEITGEIST È QUELLO DELLA

Hanno collaborat­o Peter Hallberg, Sana Azem, Joanne Kong. Market editor Elanur Erdogan. Sarta Shirlee Idzakovich. Produzione Marina Moretti. Producer on set 2b Management. Si ringrazia Claire Mosley.

 ?? ??
 ?? ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy