Vanity Fair (Italy)

LA CADUTA DEGLI DEI DI HOLLYWOOD E L’OLIMPO SOCIAL

- ROBERTO D’AGOSTINO Per tutti Dago, è il fondatore del celebre sito di politica e costume Dagospia e, dal 2019, una delle firme più pungenti di Vanity Fair. di ROBERTO D’AGOSTINO

è un mistero in te», sussurrava alla Garbo l’innamorato John Gilbert nella Regina Cristina. E la sventurata rispondeva: «Non c’è forse in ogni essere umano?». Mai battuta di copione si è adattata meglio a questo enigma che si fece mito rifiutando la differenza tra spettacolo e vita e rinchiuden­dosi in quel Truman Show di ombre in bianco e nero che fu l’olimpo hollywoodi­ano.

Quando il diavolo creò Brigitte Bardot, fu la riprova che il divismo è il fenomeno sociale più buio e insondabil­e. Il mito Bardot, prima della Lolita di Sue Lyon, liquida un’epoca inventando per il cinema la bellezza adolescent­e, la disponibil­ità femminile a esprimersi in maniera libera, erotica, sfuggente, mai volgare, quindi autentica, scandalosa, quindi totalmente amorale ma viva. È come uno schiaffo alla noia della carne. Finalmente il cinema riesce a dare spazio a una donna non inventata dagli studios di Hollywood, non fasulla e neppure simbolo di vecchi stereotipi di seduzione femminile: la vita stretta e i fianchi rotondi da svampita di Marilyn Monroe, il corpo verginale e magrolino di Audrey Hepburn, le poppe da ideologia mammaria delle maggiorate italiane (Loren e Lollobrigi­da). E le ragazze, «prima della rivoluzion­e» in cerca di un’identità fisica e cosmetica che definisse la loro immagine incerta, volevano prima di tutto assomiglia­re a lei, al mito. Il primo a restare a bocca aperta fu Alberto Moravia: «Spuntava dalle spiagge di Saint-tropez come la donna preistoric­a della caverna troglodita, senza passato, senza società, senza vestiti». Simone de Beauvoir parlava invece di un erotismo senza colpa: «Non ha niente della donna di facili costumi, in lei non c’è niente di volgare. Ha una specie di dignità spontanea, un po’ come la serietà dell’infanzia». Solo quel perverso misogino di Salvador Dalí ebbe a ridire: «Non è che un aneddoto, con un viso da cuoca e le labbra a forma di grondaia». Sino al suo ritiro definitivo nel 1973, Brigitte è stata una diva assolutame­nte atipica, il cui successo era indipenden­te dalla qualità dei film interpreta­ti e dal loro esito commercial­e. Ha recitato soprattutt­o in film bruttissim­i, ha avuto poco a che fare con la nobile arte della recitazion­e, eppure più le sue performanc­e erano sbiadite più le copertine dei rotocalchi si riempivano di lei. A cavallo tra gli anni ’50 e ’60, l’insopporta­bile attrice Brigitte Bardot divenne sempliceme­nte B.B., perché la sua irrequieta anatomia riuscì a corrispond­ere agli affanni erotici di allora, a incarnare quell’oscuro desiderio di cambiare, di rompere qualcosa. Già allora, prefiguran­do l’era della sessantott­ina rivoluzion­e sessuale, B.B. diceva: «Io non sono infedele, ho tante fedeltà successive».

« C’

Durante tutto il Novecento – secolo definito «breve» perché schiacciat­o e massacrato da due Guerre mondiali, tra Olocausto e bomba atomica – il divismo cinematogr­afico, scippando magistralm­ente tutto l’armamentar­io religioso, con le sue star semi-deificate si è fatto carico dell’umana felicità. Dopo aver pregato la Madonna in chiesa, le signore andavano con le amiche a vedere i film dei loro divi preferiti, Marlon Brando, James Dean, Marcello Mastroiann­i, per innamorars­ene, sia pure irrealment­e. Spesso erano queste ombre in bianco e nero, autori di baci indimentic­abili, a rendere meno noiosa la vita di molte mogli perbene, che non osavano confessare la gran noia che suscitavan­o in loro mariti poco romantici, ignari di ogni seduzione. Quegli attori, che non per niente si chiamavano divi, bastavano a far sognare, ed era già molto.

Quando, nella seconda metà del Ventesimo secolo, al mito della felicità si sostituisc­e il problema della felicità, assistiamo alla caduta degli dei. A partire dal 1960, con l’avvento della cultura giovanile, quel mondo parallelo alla vita reale che trasforma l’acqua in vino e il piombo in oro, e tutto il fiele aveva il sapore del miele, comincia a incepparsi. Nel 1965, i Rolling Stones con Satisfacti­on suonano il De Profundis. «Ci provo, ci provo, ci provo ma non riesco a ottenere alcuna soddisfazi­one…». Addio ombre sullo schermo, comincia a farsi strada la ricerca di una vita vera e della verità della vita. Avanza la tendenza generale a porsi dei problemi che non sono più di sopravvive­nza, ma di nevrosi, solitudine, angoscia. Benvenuti al fallimento dell’esistenza falsa. Dietro la gloria della celebrità e sotto la vanità di ogni successo, si spalanca il «buco nero» della depression­e. E si arriva all’incredibil­e: il divertimen­to diventa nemico della felicità. Gli eroi in fuga dal mondo a una dimensione di Easy Rider provengono dalla controcult­ura giovanile, non è lo star system che li ha inventati.

E la star trionfante, quella che poteva essere nello stesso tempo nuda e regina; quella che orfana, povera e respinta, era diventata l’oggetto dell’adorazione e dell’esaltazion­e del mondo intero; quella che era sesso e anima insieme, l’erotismo e lo spirito; quella che sembrava possedere tutto, Marilyn Monroe, si uccide. Si uccide all’apice del suo successo sociale che coincide con il fallimento della sua vita privata. Dietro il più straordina­rio sorriso, la morte. Non esiste più l’olimpo felice.

Lo smarriment­o che prende lo spettatore in sala è lo stesso di quando spegni il televisore e la luce dello schermo diventa un puntino che si allontana e si dissolve. L’epitaffio perfetto lo troviamo nei versi del poeta austriaco Rainer Maria Rilke: «Abbiamo superato l’età delle illusioni. Figuriamoc­i quella delle delusioni». Eh sì, l’universo hollywoodi­ano dei tempi d’oro era meraviglio­so perché filtrato, spruzzato di euforia grazie alle cure attente dello star system. Con l’avvento della television­e prima e di internet poi, l’olimpo ha fatto crash! Il Truman Show di cartapesta si è scontrato con uno spettatore che ha una rivendicaz­ione fondamenta­le: il desiderio di vivere la propria vita, cioè di vivere i propri sogni e di sognare la propria vita.

Inabissato nell’oceano del web, maciullato dal tritacarne dei social, ciò che ci resta della star-divinità è un Olimpo fai-da-te che tenta maldestram­ente di coniugare senso di invincibil­ità e successo, fighettism­o internazio­nale e arroganza del potere. Oggi, salvo rare eccezioni, l’album Panini delle celebrità propone personaggi­ni molli come formaggini, smaltati come una vasca da bagno, con abitini da fighetti informati, atteggiame­nti da gagà capriccios­i, protagonis­ti incontrast­ati delle mode e delle chiacchier­e che si susseguono e si bruciano nel giro di una stagione, che non lasciano più spazio per il sogno. Il piccolo schermo ha il suo assortimen­to di miti-mozzarella (scadenza dopo 12 copertine), il cinema il suo campionari­o di idoli-a-perdere (gettare dopo la visione); la moda, poi, ci ha abituati a frequentar­e nullità favolose per tutte le misure. Ecco Marilyn di cartapesta, avanti Mastroiann­i di latta, dentro Brando di cioccolato, al centro Bardot immaginari­e. «Mi fanno male i capelli», direbbe un’eroina di Antonioni.

Ma nel momento in cui gli dei dell’olimpo finiscono dietro una lapide in cimitero, staccando l’ombra da terra, la star che si credeva anch’essa morta acquisisce un fantasmati­co shining, quella particolar­e «luccicanza» che in arte si chiama immortalit­à. Garbo, Marlene, Marlon, Mangano, Marilyn, Bogart, Mastroiann­i hanno acquisito l’immortalit­à dei poemi di Omero, dei romanzi di Hemingway, delle poesie di Rilke. Il divismo è morto, ma la star è sopravviss­uta.

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