LA CADUTA DEGLI DEI DI HOLLYWOOD E L’OLIMPO SOCIAL
è un mistero in te», sussurrava alla Garbo l’innamorato John Gilbert nella Regina Cristina. E la sventurata rispondeva: «Non c’è forse in ogni essere umano?». Mai battuta di copione si è adattata meglio a questo enigma che si fece mito rifiutando la differenza tra spettacolo e vita e rinchiudendosi in quel Truman Show di ombre in bianco e nero che fu l’olimpo hollywoodiano.
Quando il diavolo creò Brigitte Bardot, fu la riprova che il divismo è il fenomeno sociale più buio e insondabile. Il mito Bardot, prima della Lolita di Sue Lyon, liquida un’epoca inventando per il cinema la bellezza adolescente, la disponibilità femminile a esprimersi in maniera libera, erotica, sfuggente, mai volgare, quindi autentica, scandalosa, quindi totalmente amorale ma viva. È come uno schiaffo alla noia della carne. Finalmente il cinema riesce a dare spazio a una donna non inventata dagli studios di Hollywood, non fasulla e neppure simbolo di vecchi stereotipi di seduzione femminile: la vita stretta e i fianchi rotondi da svampita di Marilyn Monroe, il corpo verginale e magrolino di Audrey Hepburn, le poppe da ideologia mammaria delle maggiorate italiane (Loren e Lollobrigida). E le ragazze, «prima della rivoluzione» in cerca di un’identità fisica e cosmetica che definisse la loro immagine incerta, volevano prima di tutto assomigliare a lei, al mito. Il primo a restare a bocca aperta fu Alberto Moravia: «Spuntava dalle spiagge di Saint-tropez come la donna preistorica della caverna troglodita, senza passato, senza società, senza vestiti». Simone de Beauvoir parlava invece di un erotismo senza colpa: «Non ha niente della donna di facili costumi, in lei non c’è niente di volgare. Ha una specie di dignità spontanea, un po’ come la serietà dell’infanzia». Solo quel perverso misogino di Salvador Dalí ebbe a ridire: «Non è che un aneddoto, con un viso da cuoca e le labbra a forma di grondaia». Sino al suo ritiro definitivo nel 1973, Brigitte è stata una diva assolutamente atipica, il cui successo era indipendente dalla qualità dei film interpretati e dal loro esito commerciale. Ha recitato soprattutto in film bruttissimi, ha avuto poco a che fare con la nobile arte della recitazione, eppure più le sue performance erano sbiadite più le copertine dei rotocalchi si riempivano di lei. A cavallo tra gli anni ’50 e ’60, l’insopportabile attrice Brigitte Bardot divenne semplicemente B.B., perché la sua irrequieta anatomia riuscì a corrispondere agli affanni erotici di allora, a incarnare quell’oscuro desiderio di cambiare, di rompere qualcosa. Già allora, prefigurando l’era della sessantottina rivoluzione sessuale, B.B. diceva: «Io non sono infedele, ho tante fedeltà successive».
« C’
Durante tutto il Novecento – secolo definito «breve» perché schiacciato e massacrato da due Guerre mondiali, tra Olocausto e bomba atomica – il divismo cinematografico, scippando magistralmente tutto l’armamentario religioso, con le sue star semi-deificate si è fatto carico dell’umana felicità. Dopo aver pregato la Madonna in chiesa, le signore andavano con le amiche a vedere i film dei loro divi preferiti, Marlon Brando, James Dean, Marcello Mastroianni, per innamorarsene, sia pure irrealmente. Spesso erano queste ombre in bianco e nero, autori di baci indimenticabili, a rendere meno noiosa la vita di molte mogli perbene, che non osavano confessare la gran noia che suscitavano in loro mariti poco romantici, ignari di ogni seduzione. Quegli attori, che non per niente si chiamavano divi, bastavano a far sognare, ed era già molto.
Quando, nella seconda metà del Ventesimo secolo, al mito della felicità si sostituisce il problema della felicità, assistiamo alla caduta degli dei. A partire dal 1960, con l’avvento della cultura giovanile, quel mondo parallelo alla vita reale che trasforma l’acqua in vino e il piombo in oro, e tutto il fiele aveva il sapore del miele, comincia a incepparsi. Nel 1965, i Rolling Stones con Satisfaction suonano il De Profundis. «Ci provo, ci provo, ci provo ma non riesco a ottenere alcuna soddisfazione…». Addio ombre sullo schermo, comincia a farsi strada la ricerca di una vita vera e della verità della vita. Avanza la tendenza generale a porsi dei problemi che non sono più di sopravvivenza, ma di nevrosi, solitudine, angoscia. Benvenuti al fallimento dell’esistenza falsa. Dietro la gloria della celebrità e sotto la vanità di ogni successo, si spalanca il «buco nero» della depressione. E si arriva all’incredibile: il divertimento diventa nemico della felicità. Gli eroi in fuga dal mondo a una dimensione di Easy Rider provengono dalla controcultura giovanile, non è lo star system che li ha inventati.
E la star trionfante, quella che poteva essere nello stesso tempo nuda e regina; quella che orfana, povera e respinta, era diventata l’oggetto dell’adorazione e dell’esaltazione del mondo intero; quella che era sesso e anima insieme, l’erotismo e lo spirito; quella che sembrava possedere tutto, Marilyn Monroe, si uccide. Si uccide all’apice del suo successo sociale che coincide con il fallimento della sua vita privata. Dietro il più straordinario sorriso, la morte. Non esiste più l’olimpo felice.
Lo smarrimento che prende lo spettatore in sala è lo stesso di quando spegni il televisore e la luce dello schermo diventa un puntino che si allontana e si dissolve. L’epitaffio perfetto lo troviamo nei versi del poeta austriaco Rainer Maria Rilke: «Abbiamo superato l’età delle illusioni. Figuriamoci quella delle delusioni». Eh sì, l’universo hollywoodiano dei tempi d’oro era meraviglioso perché filtrato, spruzzato di euforia grazie alle cure attente dello star system. Con l’avvento della televisione prima e di internet poi, l’olimpo ha fatto crash! Il Truman Show di cartapesta si è scontrato con uno spettatore che ha una rivendicazione fondamentale: il desiderio di vivere la propria vita, cioè di vivere i propri sogni e di sognare la propria vita.
Inabissato nell’oceano del web, maciullato dal tritacarne dei social, ciò che ci resta della star-divinità è un Olimpo fai-da-te che tenta maldestramente di coniugare senso di invincibilità e successo, fighettismo internazionale e arroganza del potere. Oggi, salvo rare eccezioni, l’album Panini delle celebrità propone personaggini molli come formaggini, smaltati come una vasca da bagno, con abitini da fighetti informati, atteggiamenti da gagà capricciosi, protagonisti incontrastati delle mode e delle chiacchiere che si susseguono e si bruciano nel giro di una stagione, che non lasciano più spazio per il sogno. Il piccolo schermo ha il suo assortimento di miti-mozzarella (scadenza dopo 12 copertine), il cinema il suo campionario di idoli-a-perdere (gettare dopo la visione); la moda, poi, ci ha abituati a frequentare nullità favolose per tutte le misure. Ecco Marilyn di cartapesta, avanti Mastroianni di latta, dentro Brando di cioccolato, al centro Bardot immaginarie. «Mi fanno male i capelli», direbbe un’eroina di Antonioni.
Ma nel momento in cui gli dei dell’olimpo finiscono dietro una lapide in cimitero, staccando l’ombra da terra, la star che si credeva anch’essa morta acquisisce un fantasmatico shining, quella particolare «luccicanza» che in arte si chiama immortalità. Garbo, Marlene, Marlon, Mangano, Marilyn, Bogart, Mastroianni hanno acquisito l’immortalità dei poemi di Omero, dei romanzi di Hemingway, delle poesie di Rilke. Il divismo è morto, ma la star è sopravvissuta.
➡ TEMPO DI LETTURA: 8 MINUTI