Vanity Fair (Italy)

A CASA DI LEO, IN AUTO CON SHARON STONE, A CENA DAI BROSNAN: ALTRO CHE GOSSIP

- di PAOLA JACOBBI

Sono davanti alla porta di un appartamen­to in via dei Serpenti a Roma. Fuori piove moltissimo, sono appena arrivata da Milano senza ombrello, in anticipo di venti minuti sull’orario dell’intervista. Mario Monicelli apre, guarda l’orologio e bofonchian­do «è troppo presto», mi chiude la porta in faccia. Mi siedo sulle scale. All’ora giusta mi riattacco al campanello. E stavolta va. Era una delle prime interviste che facevo per Vanity Fair.

Se penso a questi vent’anni, mi vengono in mente soprattutt­o gli imprevisti, i ritardi, i piccoli incidenti, i momenti in cui la vita (mia e loro, degli intervista­ti) si intrufolav­a, spesso a casaccio. In gran parte sono storie di cui non v’è traccia se non nella mia memoria e in qualche appunto di vecchie agende cartacee. Le migliori sono avvenute prima degli smartphone tuttofare, prima dei social media, prima di questa concezione della realtà che non è tale senza il bollino di uno scatto su Instagram. Per quanto sembri incredibil­e, c’è stato un tempo in cui avere accesso a certi personaggi era, insieme, più complesso (trattative, mail, telefonate) e più facile di oggi: li incontravi quasi sempre davvero, in qualche fortunato caso addirittur­a a casa loro, mica su Zoom.

Andai a intervista­re Sandra Bullock nei suoi uffici a Silver Lake, Los Angeles. La sua assistente mi aveva dato un indirizzo con un dettaglio sbagliato, North invece che South, o viceversa. Finii nel lato sbagliato del quartiere, tra spacciator­i di crack e case sgarrupate. Arrivai in ritardo, quella volta. Ma andò bene lo stesso.

A Tampa, Florida, io e l’intera troupe aspettammo ore John Travolta. Si presentò che era mezzanotte. Ci aveva dato appuntamen­to in un albergo/residence che però era la sede di Scientolog­y. Saloni deserti e odore di disinfetta­nte.

Finito di scattare le foto, gli altri se ne vanno, io resto con lui per l’intervista. Erano quasi le due di notte: morivo di sonno, John no. Fu un incontro sorprenden­te e divertente, a un certo punto si alzò, mi prese per mano per ripetere il gesto del suo ballo con Lady Diana alla Casa Bianca.

Era pomeriggio, invece, quando andai a Parigi da Olivia De Havilland, allora ultima sopravviss­uta del cast di Via col vento. Avevo conosciuto sua figlia Gisèle a New York. Non sapevo che fosse sua figlia, ci eravamo trovate un giorno insieme ad aspettare Angelina Jolie all’hotel Plaza per un’intervista. Nell’attesa, lei mi parlò della madre. Quando capisco di chi si tratta, mi riprometto di darle il tormento per ottenere un incontro con Olivia. Poi lei mi aiutò a organizzar­e l’intervista a Parigi.

Nemmeno per l’intervista con Angela Lansbury, la mitica Signora in giallo, passai attraverso distributo­ri di film, agenti o uffici stampa. Tutto casuale o quasi. Un’amica inglese mi mise in contatto con l’assistente personale di Angela. Passano un paio d’anni, poi eccomi a New York, con un enorme mazzo di fiori, davanti alla porta di casa di Jessica Fletcher. Faceva un gran caldo e il fiorista per tenerli freschi ci aveva messo un sacchetto pieno di ghiaccio alla base. Quando entro in anticipo (diversamen­te da Monicelli, Angela mi aveva aperto con il sorriso) e le consegno il mazzo, il ghiaccio precipita a terra: l’intervista inizia, puntuale, con me che aiuto la signora ad asciugare il pavimento.

Puntuale non è mai stata Naomi Campbell. Una volta, a Parigi, era così in ritardo che l’intervista è saltata e l’abbiamo fatta a Londra un mese dopo. Non conto le altre ore che mi ha fatto aspettare per poi essere sempre molto generosa e simpatica. Così simpatica che alla fine non le puoi dire niente, però se avessi un centesimo per ogni ora attesa adesso potrei comprarmi un bel gioiello, di quelli che indossava lei in uno di quei servizi fotografic­i mirabolant­i.

Tutte le edizioni degli Oscar a cui ho partecipat­o su incarico di Vanity sono memorabili, ma alcuni momenti lo sono stati più di altri. Tipo: quella volta che mi trovai ad aspettare l’auto con Octavia Spencer e lei mi chiese di tenerle la statuetta appena vinta mentre si toglieva le scarpe, rimanendo a piedi nudi: «Ho un male ai piedi come se l’oscar ci fosse caduto sopra».

O quella volta a una festa, una settimana prima della cerimonia, quando un candidato mi fece molto ridere: «Sai, hanno votato stamane, quel che è fatto è fatto. Basta sorrisi di circostanz­a, vado in giro a mandare tutti ’affa». Dietro di lui, la moglie, anche lei famosa attrice, si metteva le mani nei capelli (poi lui ha vinto).

Fu memorabile dividere il tappeto rosso degli Oscar con Gabriele Muccino e Will Smith, l’anno della Ricerca della felicità. Due giorni prima, Giorgio Armani e sua nipote Roberta mi avevano portata con loro a casa di Leonardo Dicaprio. C’era un piccolo party, gli ospiti erano Martin Scorsese, Penélope Cruz, Tobey Maguire. Cartolina indelebile della serata, per me: Leo e Kate Winslet che parlano fitto fitto, in giardino, accanto alla piscina e, ai loro piedi, le mille luci di Hollywood.

In cima alle colline di Los Angeles, passai un pomeriggio eterno a casa di Kevin Costner. Anche lì, la troupe si era sganciata appena finite le foto. Pensavo di iniziare l’intervista, ma Kevin aspettava gente, fece una riunione lunghissim­a mentre io restavo in giardino, con i suoi cani e le prime ombre della sera. Riemerse che era ora di cena e concludemm­o l’intervista in cucina.

Un pranzo in piena regola (insalata, pesce, vino bianco) me lo offrirono Pierce Brosnan e sua moglie nella loro casa alle Hawaii. Il tassista non voleva credere che abitasse lì, fui costretta a farlo entrare e a chiedere a Pierce che gli firmasse un autografo. Fuori pioveva moltissimo e faceva pure freddo, per essere le Hawaii, ma l’accoglienz­a dei Brosnan fu calorosa e famigliare, nonostante un tocco di malinconia dato dall’occasione: Pierce aveva appena smesso di essere James Bond.

Un anno dopo a Roma incontrai Daniel Craig per la prima volta, la prima di molte altre. In una di queste, a Londra, dovetti anticipare all’ultimo orario e giorno dell’intervista per un’emergenza famigliare: fu comprensiv­o e amichevole.

Antonio Banderas mi confessò che detestava dare interviste ma cercava di fare buon viso, visto che non si era ancora trovato nulla di meglio per promuovere i film. In realtà qualche anno dopo quell’incontro (credo fosse per La leggenda di Zorro, quindi nel 2005) sono nati i social e molto è cambiato. I divi del cinema sono diventati influencer e creatori di contenuti, i film vanno sulle piattaform­e, il variegato mondo delle serie costruisce un nuovo idolo al giorno o alla settimana. È l’algoritmo che fa la star, oggi. Niente in contrario. Ma l’algoritmo non mi darà mai un passaggio a bordo di una decappotta­bile come ha fatto una volta Sharon Stone, i nostri capelli al vento su Santa Monica Boulevard.

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 ?? ?? PAOLA JACOBBI È giornalist­a e scrittrice. Oltre ad avere pubblicato diversi libri (l’ultimo è Scostumate, per Sperling & Kupfer), ha collaborat­o alla produzione e alla scrittura di documentar­i. Dal 2003 al 2018 è stata Entertainm­ent Senior Editor di Vanity Fair.
PAOLA JACOBBI È giornalist­a e scrittrice. Oltre ad avere pubblicato diversi libri (l’ultimo è Scostumate, per Sperling & Kupfer), ha collaborat­o alla produzione e alla scrittura di documentar­i. Dal 2003 al 2018 è stata Entertainm­ent Senior Editor di Vanity Fair.
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In alto, l’intervista ad Angela Lansbury, pubblicata nel 2015. Sotto, quella a Sandra Bullock del 2007.
GRANDISSIM­E In alto, l’intervista ad Angela Lansbury, pubblicata nel 2015. Sotto, quella a Sandra Bullock del 2007.
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L’intervista di copertina ad Antonio Banderas: era il 2005 e stava per uscire al cinema il sequel de La leggenda di Zorro.
Z DI ZORRO L’intervista di copertina ad Antonio Banderas: era il 2005 e stava per uscire al cinema il sequel de La leggenda di Zorro.

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