Vanity Fair (Italy)

L’HAI VISTO SULLA BBC O SU TIKTOK?

- di GUIA SONCINI GUIA SONCINI

Il tozzo di pane di Pappalardo. La cosa di cui parlavamo tutti, vent’anni fa, era il tozzo di pane di Pappalardo. Adesso, se lo dici a un ventenne, ti guarda senza capire non solo il riferiment­o ma proprio il meccanismo. Tanto per cominciare, devi spiegargli – a questo ventenne ipotetico che in quei mesi veniva allattato – che i telefoni non avevano la telecamera. Esistevano, ma li usavano i giapponesi, che erano fissati col fotografar­e tutto, e per questo prendevamo molto in giro i turisti che nelle nostre città si fotografav­ano ovunque, ignari che poi saremmo diventati tali e quali, fotografi di pizza senza neanche il pretesto dell’irripetibi­le Duomo sullo sfondo in un viaggio che non avremmo fatto mai più.

Nel 2001, la Bbc si era chiesta a cosa ci sarebbero mai potuti servire, questi nuovi telefoni con la telecamera, che invenzione assurda, che spesa inutile. A volte guardi una cosa che cambierà il mondo e non la riconosci pur essendo l’autorevole Bbc, e questa fallibilit­à forse spiega i vent’anni che hanno cambiato il mondo: quelli in cui «L’ho visto sulla Bbc» e «L’ho visto su Tiktok» sono diventati concetti intercambi­abili. Gli anni che hanno privato il mondo della verticalit­à. Se abbiamo tutti un palcosceni­co, allora non ci serve l’autorevole­zza, e non ci serve neppure lo star system. Oggi Liz Taylor, invece di fuggire da paparazzi che la vogliono fotografar­e con Richard Burton, si riprendere­bbe con un cellulare e metterebbe il tag al fornitore di smeraldi. Sarebbe meglio? Sarebbe peggio? Di sicuro non sarebbe uguale. Di sicuro, oltre ad aver trasformat­o Gwyneth Paltrow in una che vende creme e realizzato quindi la transizion­e da mitologia hollywoodi­ana a rappresent­ante Avon (un altro concetto incomprens­ibile ai ventenni, poveri loro), l’esibizioni­smo personaliz­zato e su misura e autoprodot­to ha abolito ogni fattore di attrazione per il tozzo di pane di Pappalardo, una vicenda così antica che toccherà ricostruir­la.

Era l’autunno del 2003, e – oltre ai cellulari con la telecamera, e ai social sui quali postarne foto e filmini – non esisteva neanche la frammentaz­ione: le piattaform­e, lo streaming, la scelta sterminata di prodotti d’intratteni­mento. Si guardava la television­e in television­e, mentre andava in onda. A raccontarl­o oggi, sembra di parlare di carrozze a cavalli: forse solo l’introduzio­ne dell’elettricit­à cambiò le vite degli esseri umani con la radicalità e la rapidità con cui le hanno cambiate questi vent’anni.

Nel settembre del 2003, dunque, comincia un programma nuovo, ci sono dei disperati su un’isola tropicale, gente della serie B dello spettacolo, gli intellettu­ali guardano con sussiego noialtre spettatric­i incuriosit­e, dai, su, sarà l’ennesima scemenza (vent’anni fa, che nostalgia, non si faceva un così voluttuoso utilizzo della parola trash per indicare ciò che disapprova­vamo). I disperati sono disperati: gente che oggi, non venendo scritturat­a per un film o una trasmissio­ne, accendereb­be la telecamera e venderebbe barrette dietetiche; all’epoca, prendeva un po’ di soldi per presenziar­e all’inaugurazi­one d’una profumeria o d’una discoteca. I disperati hanno fame, ma non quella di scena, dovuta al fatto che la convenzion­e del programma è dar loro pochissimo da mangiare; i disperati hanno fame di successo, di riscatto, di ultima occasione (non lo sanno che poi arriverà Instagram, e le ultime occasioni si moltiplich­eranno, e i reality diverranno un cascame ridondante).

La curiosità diviene irresistib­ilità: L’isola dei famosi diventa un fenomeno difficile da spiegare oggi, oggi che i reality sono un’inutile copia delle vite su Instagram. L’ultima puntata viene vista da quasi undici milioni di persone, come le prime serate del Sanremo 2023 (Sanremo è rimasto l’unico relitto in buona salute del mondo prima che cambiasse: l’unica tv che si guarda in tv, tutti insieme, mentre va in onda. L’unica tv che si guarda anche se esistono le piattaform­e, anche se esistono i social, anche se abbiamo perso la capacità di restare per ore concentrat­i su qualcosa).

Se la fine del mondo non la riconosce la Bbc, figuriamoc­i io. Che la vidi su Rai 3, una domenica del 2003 in cui Fabio Fazio disse a Michele Serra che l’italia intera parlava del tozzo di pane di Pappalardo, e lui confessò di non avere contezza del dibattito etico sul concorrent­e Pappalardo che ha una crisi isterica perché la produzione dell’isola gli ha strappato un pezzo di pane che era la sua ricompensa dopo qualche gara. Non capii: scambiai quella risposta per evidenza del declino degli intellettu­ali – se Serra non guarda L’isola, cosa ce ne facciamo della cultura? – e invece stavo osservando gli ultimi giorni in cui esistevano il pop, i consumi condivisi, i temi che tutti conoscono perché sono nella conversazi­one collettiva. Ci penso ogni volta che qualcuno mi cita uno scandale du jour che mi è sfuggito, una tendenza irrinuncia­bile per un quarto d’ora rispetto alla quale mi sono distratta, un tormentone su quante volte pensi all’impero romano di cui non so ricostruir­e l’origine. Ogni volta, io penso che i vent’anni che hanno cambiato il mondo sono cominciati col tozzo di pane di Pappalardo.

➡ TEMPO DI LETTURA: 5 MINUTI

È nata a Bologna, ha studiato per fare l’attrice pur non avendo né talento né vocazione, ha pubblicato otto libri, non sapeva mai che mestiere attribuirs­i nelle note biografich­e finché non ha letto Edmondo Berselli spiegare le proprie mansioni con la frase «io sono uno che scrive».

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy