Vanity Fair (Italy)

L’IRONIA È UNA DICHIARAZI­ONE DI DIGNITÀ

- Di NINA VERDELLI

Mi ha fatto molto ridere una vignetta di Altan. Due coniugi brindano al Capodanno. Lui le dice: “A noi due!”. Lei risponde: “Noi due chi?”». Lella Costa, 71 anni, attrice e autrice famosa per i suoi monologhi, direttrice del Teatro Carcano di Milano che dell’ironia ha fatto un mestiere, cita questo come esempio di una battuta che può divertire tutti, senza offendere nessuno.

Oggi tanti si lamentano che far ridere sia diventato impossibil­e e che, a causa del politicall­y correct, non si possa più dire niente. Vero o falso?

«Falso. Chi sostiene il contrario, forse, sta facendo propaganda elettorale. Anzi, io trovo che sia importante stabilire delle regole per tutelare le categorie su cui si è fatto gli spiritosi troppo a lungo».

Allude a persone nere, grasse, anziane, con disabilità?

«Esatto, prendersel­a con loro non è ironia, è dileggio. Ci si coalizza contro il diverso perché è facile».

Una forma di bullismo.

«Precisamen­te. Devo dire che noi donne siamo meno avvezze: tendiamo a fare un tipo di ironia in cui ci mettiamo dentro. A me non viene da dire: voi siete così e io vi prendo in giro. Preferisco: noi siamo così e ci prendiamo in giro».

Tradotto: per fare ironia occorre l’autoironia.

«Non esiste l’una senza l’altra. In entrambi i casi si tratta di imparare a spostare lo sguardo: spesso ci concentria­mo sul nostro ombelico, che ci piace tanto, ma cambiare punto di vista è utilissimo. È sicurament­e un antidoto contro insofferen­za e intolleran­za».

Lei l’ha mai usato questo antidoto?

«Con Salvini. Eravamo invitati in trasmissio­ne da Daria Bignardi, lui si esprimeva in maniera aggressiva. Io gli ho risposto con sorriso e distacco».

Gli ha detto qualcosa tipo: «Forse ho letto qualche libro in più rispetto ai due che dichiara lei».

«Tipo. Comunque l’ho costretto a cambiare tono. Durante la pubblicità lui era nervosissi­mo e ha chiesto che il pubblico ridesse e applaudiss­e anche per lui. In questa circostanz­a, lo scrittore Romain Gary mi è stato d’aiuto».

In che modo?

«Definisce l’ironia “una dichiarazi­one di dignità, l’affermazio­ne di superiorit­à dell’essere umano rispetto a quello che gli capita”».

Si può fare ironia su tutto?

«Su tutto, persino sulla morte. Ce lo ha insegnato Michela Murgia, capace di volare lieve sulla sua malattia terminale».

Dopo un reading teatrale con Chiara Tagliaferr­i, Michela Murgia ha fatto esplodere il pubblico. Lei era già calva ma, ridendo, ha annunciato: «Dovete scusarci se non abbiamo dato il massimo. Una di noi due è molto malata: Chiara ha la faringite!». Boato.

«Un esorcismo meraviglio­so contro la paura, un atto di grande generosità».

C’è una sua battuta passata che oggi non rifarebbe?

«Forse sì, ma non per paura di sanzioni morali. Anni fa mi capitava di incontrare ragazze per strada che, pensando di incoraggia­rmi, mi dicevano: “Vai avanti così, falli a pezzi, gli uomini! Anch’io li odio come te”. Lì ho capito che dovevo aggiustare il tiro perché io, gli uomini, mica li odio».

Però li prende in giro.

«Be’ continuo a credere che “pensiero maschile” sia un ossimoro, nel senso che o è pensiero o è maschile».

E gli spettatori maschi non si sono mai lamentati?

«Qualcuno, ma molto bonariamen­te. Chi viene a vedermi sa che cosa lo aspetta. E poi io sono fortunata perché ho a che fare solo con persone reali».

Già, lei non è presente su nessuna piattaform­a social.

«Me ne guardo bene. Quello è un mondo permaloso e nullafacen­te di gente che critica senza metterci la faccia. Ma sa la cosa buffa?».

Cosa?

«Quando dico che non sto sui social, tanti mi rispondono: “Ah, beata te”. “Beata?”, mi stupisco io. Loro rincalzano: “Non sai che schiavitù!”. Be’, sganciatev­i ragazzi miei. Esercitare il libero arbitrio mi sembra ancora piuttosto importante».

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