Caro Direttore,
è per me un onore intervenire in questo spazio nelle celebrazioni del ventennale della rivista, ormai punto di riferimento nell’editoria italiana, che accompagna e racconta il Paese nei suoi costumi, nella sua società e nei suoi cambiamenti. Ed è proprio sui cambiamenti che scrivo queste righe, in particolare su quelli vissuti negli ultimi vent’anni dalla comunità Lgbtqia+ italiana, i cui diritti Vanity Fair ha sempre sostenuto in modo aperto, netto e coraggioso. Per questo, rivolgo a tutte e tutti voi il mio più grande ringraziamento. Se penso a una ragazza lesbica, a un ragazzo gay o a una persona trans nel 2003, e allo stesso tempo penso ai giovani di oggi, certamente percepisco enormi cambiamenti, direi epocali. Vent’anni fa la sigla Lgbtqia+ non esisteva, quantomeno in Italia, e spesso anche la stessa comunità appariva più «binaria», meno consapevole di sé e di quanto effettivamente potesse essere ampia e inclusiva. A parte poche e rare circostanze, all’inizio degli anni 2000, una persona queer, soprattutto se giovane, si percepiva come unica, nel senso di sola, aliena rispetto all’eteronormatività imperante, rappresentata sui media come singola opzione possibile. Certamente oggi la situazione è diversa: le battaglie per i diritti e per la piena uguaglianza tra le persone, iniziate alla fine degli anni ’60 del secolo scorso dai movimenti di liberazione omosessuale, hanno portato i loro frutti sul piano sociale e giuridico in tutto l’occidente (Italia a parte, ma ci tornerò più avanti). Anche la rivoluzione digitale ha avuto un ruolo importante: in particolare, i social media hanno avvicinato le persone Lgbtqia+ tra loro, sostenuto e diffuso in modo virale le battaglie di civiltà; le nuove piattaforme streaming, poi, hanno dato spazio alle istanze di diversity e inclusivity in modo inedito e, a mio avviso, indispensabile. Ecco che il coming out di una persona queer oggi, anche in Italia, appare più sereno rispetto a vent’anni fa, per quanto ancora sia un atto politico di autodeterminazione, in una società in cui permane la presunzione di eterosessualità e di perfetta adesione della propria identità di genere al sesso biologico. Tuttavia, in particolare in Italia, ritengo che sia necessario distinguere due piani, quello sociale e quello politico-giuridico. Sul piano sociale e culturale, sono profondamente convinto che anche il nostro Paese abbia vissuto un’evoluzione dei costumi uguale a quella delle altre nazioni occidentali: la comunità Lgbtqia+ ha acquisito spazi e visibilità; le famiglie arcobaleno sono realtà integrate nella società; i Pride si sono trasformati da movimenti di rivendicazione di una «minoranza» a pacifiche manifestazioni di massa all’insegna di libertà, diritti e democrazia, tanto che hanno addirittura perso la denominazione «Gay» e oggi si chiamano solo «Pride». Sul piano politico e giuridico, invece, il nostro Paese è rimasto drammaticamente indietro. L’odiosa divisione tra diritti sociali e diritti civili, assecondata anche dalla sinistra italiana che non li ha intesi come un unicum della persona, ha generato una gerarchia di priorità. Tante conquiste di civiltà, approdate decenni fa negli altri grandi Stati europei, da noi sono state annoverate tra le istanze di serie B, cosa che ha fatto il gioco della destra reazionaria italiana. La legge sulle unioni civili, approvata nel maggio 2016, è stata sicuramente un passo in avanti, ma ha visto la luce quando, nella quasi totalità degli Stati occidentali, era già in vigore il matrimonio egualitario
e rimane oggi l’unico riconoscimento dei diritti della comunità Lgbtqia+ in Italia. Una legge che dunque, a distanza di più di sei anni, appare vecchia e discriminatoria. La politica ha responsabilità enormi, che le persone pagano sulla propria pelle. Ricordo per esempio l’applauso violento e le urla da stadio dei senatori di destra quando, il 27 ottobre 2021, il Senato affossò la legge contro i crimini d’odio, il cosiddetto ddl Zan, per cui questa rivista tanto coraggiosamente si era spesa, lanciandone, a sostegno, una campagna che ha attraversato e coinvolto tutta l’italia. Anche grazie a Vanity Fair, il dibattito nazionale su quella proposta di legge ha raggiunto dimensioni enormi, contribuendo alla visibilità della comunità Lgbtqia+ e alla sua sacrosanta rivendicazione di diritti. Tale rivendicazione, in Italia, spesso purtroppo trova spazio solo nelle aule dei tribunali; penso per esempio al riconoscimento dei diritti dei figli delle famiglie arcobaleno: in assenza di una legislazione in merito, solo un giudice può porre fine a una discriminazione odiosa e inaccettabile. Da questo punto di vista, infatti, oggi la situazione italiana rimane drammatica. Il governo Meloni e la maggioranza di destra non solo non hanno alcuna intenzione politica di estendere i diritti, anzi: li stanno sistematicamente attaccando, con un chiaro disegno persecutorio, in pieno stile Orbán, mentore politico e culturale della nostra premier. La circolare del ministro dell’interno Piantedosi che impedisce ai sindaci di trascrivere i figli delle coppie di persone dello stesso sesso, la bocciatura del Senato del Regolamento europeo che prevede il riconoscimento degli stessi diritti dei bambini in tutti i Paesi Ue, l’appoggio alle leggi omotransfobiche ungheresi, la proposta di legge che vuole rendere la gestazione per altri reato universale, che altro non è se non un tentativo di criminalizzare le famiglie arcobaleno: sono tutti tasselli di un attacco metodico ai diritti della comunità Lgbtqia+ italiana. A questo dobbiamo aggiungere lo sdoganamento istituzionale di un linguaggio d’odio che ha effetti devastanti nella società, basti pensare alle follie diffuse nelle ultime settimane da un generale dell’esercito ancora in servizio. All’inizio di questa riflessione ho sostenuto, a un primo sguardo, che sia facile notare i cambiamenti radicali avvenuti dai primi anni 2000. Tuttavia, leggendo l’attualità in modo approfondito, non si possono non vedere anche taluni cambiamenti in negativo. Non era mai accaduto prima, nella storia repubblicana, che un governo si accanisse con questa violenza contro una parte delle sue cittadine e dei suoi cittadini, in palese violazione della Costituzione. La visibilità delle persone queer, faticosamente conquistata, ha generato una risposta nelle frange più reazionarie della società, che oggi purtroppo ricoprono ruoli apicali all’interno delle istituzioni e del governo. Siamo quindi tutte e tutti chiamati a una nuova forma di Resistenza, ovviamente pacifica e democratica, ma ferma e risoluta: le elezioni europee della prossima primavera saranno uno spartiacque senza precedenti. L’europa e le sue istituzioni, che io considero come un argine ai sovranismi, non possono e non devono cadere nelle stesse mani che oggi guidano l’italia. Serve un sussulto della società civile, serve un «non ci stiamo» collettivo, che ricordi come i diritti sono patrimonio comune, di tutte e tutti. Alla redazione di Vanity Fair, ancora grazie.