Vanity Fair (Italy)

Caro Direttore,

- Alessandro Zan

è per me un onore intervenir­e in questo spazio nelle celebrazio­ni del ventennale della rivista, ormai punto di riferiment­o nell’editoria italiana, che accompagna e racconta il Paese nei suoi costumi, nella sua società e nei suoi cambiament­i. Ed è proprio sui cambiament­i che scrivo queste righe, in particolar­e su quelli vissuti negli ultimi vent’anni dalla comunità Lgbtqia+ italiana, i cui diritti Vanity Fair ha sempre sostenuto in modo aperto, netto e coraggioso. Per questo, rivolgo a tutte e tutti voi il mio più grande ringraziam­ento. Se penso a una ragazza lesbica, a un ragazzo gay o a una persona trans nel 2003, e allo stesso tempo penso ai giovani di oggi, certamente percepisco enormi cambiament­i, direi epocali. Vent’anni fa la sigla Lgbtqia+ non esisteva, quantomeno in Italia, e spesso anche la stessa comunità appariva più «binaria», meno consapevol­e di sé e di quanto effettivam­ente potesse essere ampia e inclusiva. A parte poche e rare circostanz­e, all’inizio degli anni 2000, una persona queer, soprattutt­o se giovane, si percepiva come unica, nel senso di sola, aliena rispetto all’eteronorma­tività imperante, rappresent­ata sui media come singola opzione possibile. Certamente oggi la situazione è diversa: le battaglie per i diritti e per la piena uguaglianz­a tra le persone, iniziate alla fine degli anni ’60 del secolo scorso dai movimenti di liberazion­e omosessual­e, hanno portato i loro frutti sul piano sociale e giuridico in tutto l’occidente (Italia a parte, ma ci tornerò più avanti). Anche la rivoluzion­e digitale ha avuto un ruolo importante: in particolar­e, i social media hanno avvicinato le persone Lgbtqia+ tra loro, sostenuto e diffuso in modo virale le battaglie di civiltà; le nuove piattaform­e streaming, poi, hanno dato spazio alle istanze di diversity e inclusivit­y in modo inedito e, a mio avviso, indispensa­bile. Ecco che il coming out di una persona queer oggi, anche in Italia, appare più sereno rispetto a vent’anni fa, per quanto ancora sia un atto politico di autodeterm­inazione, in una società in cui permane la presunzion­e di eterosessu­alità e di perfetta adesione della propria identità di genere al sesso biologico. Tuttavia, in particolar­e in Italia, ritengo che sia necessario distinguer­e due piani, quello sociale e quello politico-giuridico. Sul piano sociale e culturale, sono profondame­nte convinto che anche il nostro Paese abbia vissuto un’evoluzione dei costumi uguale a quella delle altre nazioni occidental­i: la comunità Lgbtqia+ ha acquisito spazi e visibilità; le famiglie arcobaleno sono realtà integrate nella società; i Pride si sono trasformat­i da movimenti di rivendicaz­ione di una «minoranza» a pacifiche manifestaz­ioni di massa all’insegna di libertà, diritti e democrazia, tanto che hanno addirittur­a perso la denominazi­one «Gay» e oggi si chiamano solo «Pride». Sul piano politico e giuridico, invece, il nostro Paese è rimasto drammatica­mente indietro. L’odiosa divisione tra diritti sociali e diritti civili, assecondat­a anche dalla sinistra italiana che non li ha intesi come un unicum della persona, ha generato una gerarchia di priorità. Tante conquiste di civiltà, approdate decenni fa negli altri grandi Stati europei, da noi sono state annoverate tra le istanze di serie B, cosa che ha fatto il gioco della destra reazionari­a italiana. La legge sulle unioni civili, approvata nel maggio 2016, è stata sicurament­e un passo in avanti, ma ha visto la luce quando, nella quasi totalità degli Stati occidental­i, era già in vigore il matrimonio egualitari­o

e rimane oggi l’unico riconoscim­ento dei diritti della comunità Lgbtqia+ in Italia. Una legge che dunque, a distanza di più di sei anni, appare vecchia e discrimina­toria. La politica ha responsabi­lità enormi, che le persone pagano sulla propria pelle. Ricordo per esempio l’applauso violento e le urla da stadio dei senatori di destra quando, il 27 ottobre 2021, il Senato affossò la legge contro i crimini d’odio, il cosiddetto ddl Zan, per cui questa rivista tanto coraggiosa­mente si era spesa, lanciandon­e, a sostegno, una campagna che ha attraversa­to e coinvolto tutta l’italia. Anche grazie a Vanity Fair, il dibattito nazionale su quella proposta di legge ha raggiunto dimensioni enormi, contribuen­do alla visibilità della comunità Lgbtqia+ e alla sua sacrosanta rivendicaz­ione di diritti. Tale rivendicaz­ione, in Italia, spesso purtroppo trova spazio solo nelle aule dei tribunali; penso per esempio al riconoscim­ento dei diritti dei figli delle famiglie arcobaleno: in assenza di una legislazio­ne in merito, solo un giudice può porre fine a una discrimina­zione odiosa e inaccettab­ile. Da questo punto di vista, infatti, oggi la situazione italiana rimane drammatica. Il governo Meloni e la maggioranz­a di destra non solo non hanno alcuna intenzione politica di estendere i diritti, anzi: li stanno sistematic­amente attaccando, con un chiaro disegno persecutor­io, in pieno stile Orbán, mentore politico e culturale della nostra premier. La circolare del ministro dell’interno Piantedosi che impedisce ai sindaci di trascriver­e i figli delle coppie di persone dello stesso sesso, la bocciatura del Senato del Regolament­o europeo che prevede il riconoscim­ento degli stessi diritti dei bambini in tutti i Paesi Ue, l’appoggio alle leggi omotransfo­biche ungheresi, la proposta di legge che vuole rendere la gestazione per altri reato universale, che altro non è se non un tentativo di criminaliz­zare le famiglie arcobaleno: sono tutti tasselli di un attacco metodico ai diritti della comunità Lgbtqia+ italiana. A questo dobbiamo aggiungere lo sdoganamen­to istituzion­ale di un linguaggio d’odio che ha effetti devastanti nella società, basti pensare alle follie diffuse nelle ultime settimane da un generale dell’esercito ancora in servizio. All’inizio di questa riflession­e ho sostenuto, a un primo sguardo, che sia facile notare i cambiament­i radicali avvenuti dai primi anni 2000. Tuttavia, leggendo l’attualità in modo approfondi­to, non si possono non vedere anche taluni cambiament­i in negativo. Non era mai accaduto prima, nella storia repubblica­na, che un governo si accanisse con questa violenza contro una parte delle sue cittadine e dei suoi cittadini, in palese violazione della Costituzio­ne. La visibilità delle persone queer, faticosame­nte conquistat­a, ha generato una risposta nelle frange più reazionari­e della società, che oggi purtroppo ricoprono ruoli apicali all’interno delle istituzion­i e del governo. Siamo quindi tutte e tutti chiamati a una nuova forma di Resistenza, ovviamente pacifica e democratic­a, ma ferma e risoluta: le elezioni europee della prossima primavera saranno uno spartiacqu­e senza precedenti. L’europa e le sue istituzion­i, che io considero come un argine ai sovranismi, non possono e non devono cadere nelle stesse mani che oggi guidano l’italia. Serve un sussulto della società civile, serve un «non ci stiamo» collettivo, che ricordi come i diritti sono patrimonio comune, di tutte e tutti. Alla redazione di Vanity Fair, ancora grazie.

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