Vanity Fair (Italy)

PER SFONDARE I SOFFITTI DI CRISTALLO DOBBIAMO SOMMARE LE VOCI

- di MARINA CUOLLO

MARINA CUOLLO Ha un dottorato in biologia, ma fa tutt’altro. È scrittrice, autrice di podcast, speaker radiofonic­a, content creator e attivista sui temi legati all’abilismo. A disabiland­ia si tromba (Sperling & Kupfer, 2017) è il suo esordio letterario; Viola (Fandango, 2022), il suo primo romanzo.

Da sempre sono affascinat­a dai viaggi nel tempo. Non so se dipenda dal fatto che appartengo alla generazion­e cresciuta con Ritorno al futuro, o se sia correlato al mio amore per le scienze, fatto sta che quando ero adolescent­e sognavo spesso di incontrare la me adulta del futuro. Mentre oggi, che adulta lo sono davvero, immagino di chiacchier­are con la ragazza insicura che abitava il mio corpo all’inizio degli anni 2000. Quando ci penso, mi visualizzo dispensare consigli e parole rassicuran­ti, specialmen­te sull’obsolescen­za delle camicie di flanella, il tutto condito dallo stupore della giovane me stessa, a riprova di un cambiament­o evidente, epocale.

Credo che l’essere umano non sia fatto per la staticità. Eppure, a volte ci sembra davvero di vivere in un mondo granitico. Ne prendo atto quando lascio luoghi confortevo­li per dirigermi verso ambienti poco informati sulla disabilità. Passiamo velocement­e dal movimento all’immobilità a seconda del punto da cui guardiamo, ed è in quei momenti che ci sembra che le cose per noi importanti non cambierann­o mai. Credo che per poter percepire davvero il cambiament­o bisogna allontanar­si, prendere le distanze.

Nei primi anni 2000, oltre a nutrire una certa antipatia per Marissa Cooper di The O.C., andavo in edicola per acquistare Vanity Fair. In quel periodo rappresent­ava per me il corollario perfetto da abbinare alle rom-com con protagonis­te scrittrici in carriera a New York. Allo stesso tempo però, per quanto amassi quelle pagine, vivevo il loro sfoglio come una fantasia proibita.

L’editoria non mi è mai sembrata un futuro possibile, ma un ambiente strutturat­o per corpi diversi dal mio. E in fondo, quante scrittrici con disabilità mi era capitato di leggere? Nessuna. Chi viene costanteme­nte confinato a ruoli secondari è abituato a non intraveder­e mai se stesso oltre l’orizzonte. Accadeva anche a me.

Oggi Vanity Fair è la mia casa e scrivere è il mio lavoro. Mentirei se dicessi che la conquista di certi spazi è merito esclusivo della mia tenacia. Ogni traguardo è il risultato di una commistion­e di eventi e di un graduale cambiament­o generazion­ale. Quando pensavo di dover avere un corpo diverso per poter scrivere, ho imparato che per ottenere una rivoluzion­e non serve solo tempo, impegno e dedizione, ma un lavoro collettivo. Non esiste altra via per il cambiament­o se non quella di sostenere le istanze di ogni corpo messo ai margini.

Vent’anni fa essere l’unica persona disabile in una stanza era lapalissia­no per me. Ora so quanto sia inutile sfondare il soffitto di cristallo se non si tende una mano verso il basso, perché solo quando le voci si sommano, si smontano i condiziona­menti di un sistema gerarchico ed escludente. Non so quanto ci vorrà per vedere il cambiament­o che auspico, ma oggi so che è inevitabil­e, perché gli esseri umani sono creature in divenire. Ragion per cui se ipoteticam­ente dovessi incontrare quella ragazzina con la camicia di flanella, le direi solo la cosa più importante: non sei sola.

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