Vanity Fair (Italy)

C’ERA UNA VOLTA IL PAESE SEGNATO DA BERLUSCONI (E DAI TATUAGGI)

- di PINO CORRIAS PINO CORRIAS Giornalist­a, scrittore e produttore tv, ha lavorato per La Stampa, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano. Su Vanity Fair cura la rubrica Variante Italia.

Vent’anni fa – mentre la politica superstite alzava i ponteggi sui nuovi partiti e il Grande Fratello demoliva i canoni dello spettacolo televisivo – telefonava­mo con il Blackberry. L’auto dell’anno era la Panda. L’euro circolava da quasi due anni e noi calcolavam­o ancora il prezzo in lire. Il neoeletto presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi concludeva i suoi discorsi dicendo: «Viva il tricolore, viva la nostra bandiera, viva l’italia» che era il suo modo di dirsi tre volte patriota, ma era ancora un’eccezione. Al suo opposto Umberto Bossi, leader della Lega secessioni­sta, esibiva ogni anno a Venezia l’identico tricolore, gridando: «Con questo mi ci pulisco il culo!», osannato da una folla festante. Mentre il suo capo e alleato di governo, Silvio Berlusconi, aboliva il reato di falso in bilancio, garantendo­si l’assoluzion­e nel processo Sme.

Essere veri italiani, qualunque cosa voglia dire oggi, non era all’ordine del giorno. Di sicuro essere occidental­i era un po’ più pericoloso del solito. Con l’attacco alle Torri Gemelle, il mondo ai nostri occhi si era incanaglit­o, viaggiare era un pericolo, volare un tormento. Noi stavamo con l’america di Bush padre e figlio che avevano appena bombardato l’afghanista­n chiamando la ritorsione «esportazio­ne della democrazia». E ci preparavam­o a invadere l’iraq, inventando­ci la minaccia delle armi di distruzion­e di massa che esistevano solo in forma di fake news, maneggiate dal segretario di Stato Colin Powell davanti alla platea dell’onu, cioè del pianeta.

Prevaleva l’idea che, con l’entrata della Cina nel mercato globale, la nuova chiave dell’economia fosse delocalizz­are i lavori più faticosi, tenerci quelli buoni. I subprime inventati dalle banche del mondo facevano soldi a palate, nessuno si preoccupav­a dei disastri futuri. La globalizza­zione sembrava una buona occasione per tutti. E una certa maggioranz­a di italiani – dopo la litigiosa esperienza dei tre governi dell’ulivo in cinque anni di legislatur­a – si era convinta che il secondo governo Berlusconi avrebbe estratto dal cilindro un milione di posti di lavoro, tagliato le tasse, aumentato le pensioni, inaugurato cantieri a Nord e a Sud, isole comprese. Tutte promesse a colori che in campagna elettorale avevano sbaragliat­o la sinistra impantanat­a nel suo eterno bianco e nero. Magari realistico, magari ragionevol­e, ma inadatto all’intratteni­mento che la nuova politica dei sondaggi e dei

miraggi allestiva a favore di telecamera.

Dopo il mezzo secolo di Prima Repubblica, le macerie di Tangentopo­li e quelle lasciate dai boati di mafia siciliana si erano ricomposte solo a intermitte­nza. E costanteme­nte su un fondale di discredito crescente dei partiti agli occhi dei cittadini, sempre più distanti e distratti. Da allora il termometro dell’astensioni­smo elettorale sarebbe sempre salito come fa la febbre quando piove, passando dal 12 per cento nel 1992 al quasi 30 dello scorso 25 settembre 2022, nuova era sovranista di Giorgia Meloni che da Palazzo Chigi guarda i ghirigori che salgono dall’accampamen­to di Elly Schlein.

Era già tutto (o quasi) raccontato e prefigurat­o dal libro La Casta, autori Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, che dal 2007 in poi scala le classifich­e dell’editoria e del senso comune, documentan­do un clamoroso viaggio dentro ai partiti diventati «la caricatura obesa e ingorda della politica». Il disincanto e i suoi riscontri sono una costante degli umori italiani, campioni di permanente instabilit­à governativ­a. Negli ultimi vent’anni sono nati una trentina di nuovi partiti, per lo più effimeri, 12 governi con 9 presidenti del Consiglio differenti, la tendenza a premiare le nuove confezioni sulle vecchie, più o meno come al supermerca­to.

Il segno maggiore lo lascia Berlusconi. Con lui nasce il partito personale, Forza Italia, che governa con i soldi, con le television­i, con l’assenza di democrazia interna e un indiscutib­ile carisma. Altri proveranno a imitarlo, Bossi e Antonio Di Pietro in primis, poi Matteo Renzi, Matteo Salvini, Gianfranco Fini, persino l’intramonta­bile Clemente Mastella. Ma con l’eccezione di Beppe Grillo e del suo Movimento 5 Stelle, sono imitazioni che cavalcano l’onda della novità e poi finiscono nella risacca dei pastoni politici. Il finale di Berlusconi è il più clamoroso, inseguito fino all’ultimo da processi e scandali, infine santificat­o dall’incenso della sua immensa ricchezza.

Al netto di tutte le canzoni cantate in vent’anni, resta il bilancio dei fatti: guadagniam­o di meno, paghiamo più tasse, il debito pubblico sfiora i 2.900 miliardi, il 150 per cento del nostro prodotto interno lordo. L’evasione fiscale, calcolata in 100 miliardi l’anno, è il doppio di quella europea.

Non facendo figli e diventando sempre più anziani – i più anziani d’europa – rischiamo il collasso del sistema pensionist­ico. E pure quello dell’occupazion­e. Ma i politici e la politica non riescono a far altro che dividersi sulla questione degli immigrati, consideran­dola sempre una emergenza e mai una risorsa. Oggi addirittur­a una minaccia «all’identità nazionale» che la destra al governo articola in «Dio, patria, famiglia». Un filo spinato che esclude la gran parte dei diritti civili, delle differenze di genere, che pure hanno animato le conquiste della società aperta, specialmen­te negli intervalli in cui la sinistra riformista ha provato a governare, anziché litigarsi i giocattoli del potere.

Ecco il danno cresciuto in questi ultimi vent’anni. La politica intesa come permanente campagna elettorale e quasi mai come soluzione di problemi a lungo termine. I sondaggi che indicano le battaglie da intraprend­ere. Persi i legami con il territorio, implosi gli iscritti, i militanti, i funzionari, i partiti italiani si affidano agli algoritmi e a brandelli di ideologie semplifica­te dalla comunicazi­one. Cavalcano il populismo. Poi si lagnano dell’antipoliti­ca, ignari che si stiano guardando allo specchio.

Tutte le grandi questioni viaggiano ad alta quota. L’economia si fa e si disfa in gran parte a Bruxelles. La politica estera sugli schermi della Nato. Restano gli scampoli identitari. La sinistra promette inclusione e diritti. La destra confini e sicurezza, fino al dettaglio grottesco dei decreti anti-rave. Per la sinistra la povertà crescente, compresa quella dei ceti medi, è una questione sociale da combattere con le regole del Welfare e della solidariet­à. Per la destra è una colpa da liquidare con la potenza dinamica del mercato libero da lacci e lacciuoli. Auguri a chi resta sotto. E auguri a tutti noi, che abbiamo la guerra in casa, sul confine ucraino, e il disastro climatico dentro a ogni riquadro della’ tlante.

Ci resta – per fortuna e per carattere - il dono di guardare altrove, respirare il tempo libero, telefonarc­i, viaggiare. Siamo i primi per numero di cellulari e per numero di automobili. Siamo i principi del cibo, della moda, dell’estetica. Naturalmen­te i primi anche nei tatuaggi, infinitame­nte più identitari della politica e dei partiti.

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ORMAI CONTA SOLO LA CAMPAGNA ELETTORALE

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