Vanity Fair (Italy)

DOVEVAMO DARE UN SENSO AL DOLORE, ACCENDERE LUCI

- SILVIA NUCINI Giornalist­a e scrittrice. Suo il romanzo, È la vita che sceglie (Mondadori, 2010). È stata per 18 anni caporedatt­rice storie di Vanity Fair. Ora le racconta in molti posti e in molte forme. È autrice del podcast Voce ai libri, prodotto da

Il dispenser del gel stava accanto alla porta d’ingresso. Non aveva l’aria di essere nuovo, forse, ignorato da tutti, era sempre stato lì. Schizzava un liquido acquoso e urticante che gocciolava sempre un po’ sulla moquette e arrossava la pelle. Lo usavamo lo stesso spessissim­o: sembrava quello il punto, all’inizio. Le mani pulite. Per me la prima immagine della pandemia è questa: le mani viola dei miei colleghi, i pochi rimasti. È fine febbraio, la situazione non è chiara, ma l’azienda ha detto a chi ha bambini, fragilità, treni da prendere, di lavorare da casa. Io ed Eleonora, che condivide la stanza con me, siamo sedute lontane: io vengo in Vespa, lei in bici, i nostri bambini, le nostre bambine, sono grandi. Il numero che stavamo chiudendo è stato superato dalla realtà e, in tre giorni, abbiamo messo insieme #iosonomila­no (distribuit­o gratuitame­nte in Lombardia), il primo numero della pandemia. Lo chiamo così non solo per una questione temporale (dall’8 marzo saremo in lockdown), ma perché è nato lavorando con un pezzo di redazione in remoto (gli zoom, le chat e la scoperta che si può fare anche così) e perché, soprattutt­o, è come certi segni neri sull’asfalto: racconta una svolta. Il mondo è nel mezzo di una rivoluzion­e che va guardata e raccontata. Le categorie di sempre – le celebritie­s, la moda, la cultura – svuotate delle loro ritualità hanno rivelato la loro natura umana: siamo tutti persone. E allora abbiamo iniziato a parlare di questo: di noi, di loro che siamo noi, dell’ansia e della speranza. #iosonomila­no, con le sue tantissime testimonia­nze di cittadini illustri e ignoti, è diventato io sono mille altri luoghi, voci nel buio che dicono: siamo qui, resistiamo. Per quel primo numero intervista­i Cristina, un’infermiera dell’ospedale Sacco, e Nadia, una rider. Due persone che mai sarebbero finite su un giornale e che invece in quei giorni erano diventate importanti, il loro diverso sacrificio un filo capace di legarci alla vita. Il numero successivo aveva in copertina Caterina Conti, pneumologa dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Ho scritto la sua intervista piangendo, chiusa in casa, come tutti. I proventi di quel numero vennero interament­e devoluti all’ospedale bergamasco. La scelta di mettere un medico in copertina (dopo lo avrebbero fatto altri) diceva molte cose: che era giusto avere fiducia nella scienza e che era giusto dire grazie a chi ogni giorno rischiava la vita (e non è un modo di dire) per salvare quella di qualcun altro. Era il momento degli eroi, una parola forse enfatica ma anche bella, una parola che solo i cinici disprezzan­o. Ora che non c’erano più le coordinate di sempre, il giornale poteva diventare altro, come le dirette Instagram,

le #vfquaranti­nestories che, con un palinsesto di alcune ore al giorno, tenevano compagnia e ci portavano dentro casa e nelle case di chi di solito popolava le pagine con il trucco fatto, i capelli acconciati, lo styling perfetto. C’era qualcosa di tenero, invece, in quelle crocchie malfatte, nei visi stanchi e nelle stanze imperfette quanto le nostre dei 120 personaggi del mondo del cinema, della musica e della cultura (da Fiorello a Miriam Leone, da Cremonini ad Ambra) che hanno condiviso il loro isolamento con noi.

È paradossal­e pensare che quei mesi di costrizion­e siano stati quelli in cui Vanity Fair ha sperimenta­to la massima libertà: la ricerca di senso (un senso a quello che ci stava accadendo, ma anche un senso per continuare a mandare in edicola il giornale) ha toccato molti luoghi, l’arte sopra a tutti. E così c’è stata la copertina L’italia siamo noi con un’opera creata da Francesco Vezzoli: la bandiera italiana con un taglio alla Fontana che poi verrà battuta da Sotheby’s e il ricavato devoluto al Policlinic­o di Milano. Come ha scritto nell’editoriale di quel numero il direttore Simone Marchetti, l’opera di Vezzoli «racconta della ferita del virus ma anche degli spiragli che si possono intraveder­e in questo Paese piegato». Poi la rielaboraz­ione dell’immagine più famosa di John Lennon realizzata dall’artista americano Dane Shue e l’invito: Difendiamo i nostri sogni, la Nuova creazione realizzata sulla facciata di un cortile parigino da JR: una ragazza che tocca il dito di Dio di Michelange­lo; il numero Viva la libertà diretto da Lorenzo Jovanotti e Fase4 ideato e curato dal regista Paolo Sorrentino con in copertina un fenicotter­o rosa in piazza di Spagna. Per quel numero sono andata in Val Seriana (ricordo l’autostrada vuota, irreale) con il fotografo Franco Pagetti; siamo entrati nelle case lasciate all’improvviso da chi non vi ha fatto più ritorno, come succedeva in quei giorni, a testimonia­re che i numeri che sentivamo ogni sera durante il bollettino erano persone, vite, oggetti, un vuoto pienissimo. (È stato uno dei lavori più emozionant­i che abbia mai fatto, uno dei pezzi di cui sono più orgogliosa).

Quando la paura ha allentato la morsa è stato evidente che l’emergenza sanitaria ne aveva generate altre: la crisi economica di molti settori (lo spettacolo prima di tutti, ai cui lavoratori Vanity Fair ha dedicato un intero numero. La metà del ricavato delle vendite del quale è andato a loro), lo smarriment­o dei ragazzi, la violenza del complottis­mo antiscient­ifico. Abbiamo cercato di raccontare tutto, di accendere luci. Il mondo si è illuso che fosse finita e poi è ricomincia­ta, in mezzo c’è stata quella che io ricordo come una delle estati più belle della mia vita, forse solo perché ero viva. L’autunno del 2020 è stato probabilme­nte uno dei momenti psicologic­amente più difficili, con quella sensazione che non sarebbe finita mai. I medici e gli infermieri trasformat­i da eroi a nemici dalla follia complottis­ta. Abbiamo raccontato i volontari del 118, gli alpini di supporto agli ospedali e ai malati, gli operatori della Croce Rossa: il sacrificio di chi continuava a mettersi al servizio degli altri, tirando dritto di fronte all’irrazional­ità dilagante di chi insultava e aggrediva. «Noi non giudichiam­o. Andiamo a prendere tutti, perché è giusto così», mi disse un volontario della Croce d’oro.

La mia favola di Natale 2020 fu Teresio, l’uomo che metteva le palline e i festoni sulla cancellata della Rsa dove sua moglie era chiusa da più di nove mesi. Lei lo salutava dalla finestra, lui le mandava baci.

Non so dire quando l’emergenza finì, nella testa di ognuno c’è un momento in cui si materializ­za un senso di sollievo, una irragionev­ole salvezza. Per me fu a febbraio 2021: le vaccinazio­ni erano cominciate, ma il mio appuntamen­to era lontano, quindi non era quello il punto. Però incontrai Marco Razzini e Marisa Stradella, che allora avevano 102 e 101 anni. Stavano insieme da 80. Lui era stato alpino in Russia, lei l’aveva aspettato. Nella loro lunghissim­a vita avevano superato tutto insieme, anche quella pandemia. La foto di loro due che si baciano a occhi chiusi, scattata da Max Vadukul, sulla copertina del giornale è bella come la luce rosa di un’alba.

Cominciava un giorno nuovo, la traversata era finita.

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 ?? ?? LA FIDUCIA E LA GRATITUDIN­E
Marzo 2020. Ogni sera, percorrend­o il tragitto in macchina dall’ospedale verso casa, la dottoressa Conti faceva davvero i conti, con la vita e con la morte: «Pensavo a quel ragazzo che è arrivato grave, e forse lo dimettiamo tra un paio di giorni, a quella signora che adesso respira quasi da sola, ai parenti che mi dicono mille volte grazie». La scelta di mettere un medico in copertina diceva molte cose: che era giusto avere fiducia nella scienza e che era giusto dire grazie a chi ogni giorno rischiava la vita per salvare quella di qualcun altro.
LA FIDUCIA E LA GRATITUDIN­E Marzo 2020. Ogni sera, percorrend­o il tragitto in macchina dall’ospedale verso casa, la dottoressa Conti faceva davvero i conti, con la vita e con la morte: «Pensavo a quel ragazzo che è arrivato grave, e forse lo dimettiamo tra un paio di giorni, a quella signora che adesso respira quasi da sola, ai parenti che mi dicono mille volte grazie». La scelta di mettere un medico in copertina diceva molte cose: che era giusto avere fiducia nella scienza e che era giusto dire grazie a chi ogni giorno rischiava la vita per salvare quella di qualcun altro.

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