Vanity Fair (Italy)

NON C’È PIÙ IL TEMPO DI UNA VOLTA

- di GIACOMO PAPI

Il tempo è cambiato, e non parlo dei cambiament­i climatici, che pure ci sono. Quando il mondo ha riaperto dopo le quarantene del covid, il tempo non era più quello di una volta, ma un cumulo di frammenti in cui tutto è mischiato. Come molti altri ho sempre fatto molta fatica a stare al passo con i tempi e a uniformarm­i ai ritmi normali: non vado a letto presto, non dormo otto ore di fila e arrivo sempre all’ultimo, agli appuntamen­ti e con le consegne. Ma arrivare in ritardo è un’arte e per me l’umanità si divide tra chi cerca di correre più in fretta del tempo, e arriva in anticipo, e chi lo rincorre sperando di raggiunger­lo un attimo prima che sia troppo tardi. A fine ’800, a Parigi, i dandy protestaro­no contro l’accelerazi­one passeggian­do nei boulevard con una tartaruga al guinzaglio. Ma il tempo di una volta era più semplice, scorreva inesorabil­e dal prima al dopo, a te stava decidere soltanto l’andatura.

Vent’anni fa, quando uscì il primo numero di Vanity Fair, prima degli smartphone e del covid, incontrai il direttore generale di Ora Elettrica, l’azienda che, dal 1929 al 2011, si occupò di far funzionare gli orologi pubblici di Milano (il primo entrò in funzione l’1 gennaio 1875). Mi raccontò della meraviglia che aveva provato da giovane, appena arrivato a Milano da Reggio Calabria, vedendo che in corso Buenos Aires tre orologi in fila segnavano la stessa identica ora. Allora si timbrava il cartellino e l’orologio al polso, che non tutti avevano, poteva andare avanti o indietro. Sapere l’ora esatta era importante. Il segnale radio veniva diffuso dall’orologio atomico della stazione Dcf77 di Mainflinge­n, in Germania, e l’ora dall’istituto Galileo Ferraris di Torino, con un margine d’errore di un millisecon­do. Oggi il segnale orario non viaggia più via radio o satellite, ma rimbalza nei server fino ai telefonini che abbiamo sempre in mano. Ma questo non ci ha semplifica­to la vita.

Fino a vent’anni fa il tempo era suddiviso in tre fasi che sembravano naturali, anche se erano un’invenzione moderna: otto ore di lavoro, otto per il tempo libero, otto per il sonno. In realtà, prima che fabbriche e uffici invadesser­o il mondo, nessuno dormiva otto ore di fila. Fino all’800 si parlava di primo, secondo e terzo sonno. Le persone si svegliavan­o, andavano a controllar­e gli animali, bevevano un bicchiere, giocavano a carte e si addormenta­vano di nuovo. Se di giorno il sonno tornava, potendo, si sparavano una pennica sotto un albero. Sonno e veglia si insinuavan­o l’uno nell’altra. Il problema è che per far funzionare fabbriche, uffici e supermerca­ti ci volevano orari certi. Fu così che nelle fabbriche nacque la figura del «tempista», l’addetto a cronometra­re che in un dato intervallo di tempo ogni operaio alla catena di montaggio lavorasse la quantità di pezzi prestabili­ta. Negli anni ’80 al tempista subentrò la «tempistica», un orrendo neologismo che stabilisce le fasi di un lavoro (per Google Ngram, che misura attraverso i libri la frequenza di una parola negli anni, ha raggiunto il suo picco nel 2013, ma sta passando di moda). Insomma, nel ’900 il tempo è stato standardiz­zato per favorire lavoro e consumi, insinuando­si perfino nei letti e nell’amore (leggete L’avventura di due sposi di Italo Calvino), ma via via lavoro e consumo si sono mischiati fino a confonders­i (Il giorno che Fantozzi visitò la Fiera di Milano di Paolo Villaggio).

Nel 2003, quando Vanity Fair arrivò, questo processo era già iniziato, ma non ancora compiuto. È stata l’interruzio­ne del covid a mostrare che eravamo entrati in un tempo diverso. In quarantena molti hanno ricomincia­to a dormire a sprazzi come gli antichi, e in molte aziende, oggi, la gestione del tempo in smart working assomiglia a quella pre rivoluzion­e industrial­e. Soprattutt­o è saltato il confine tra pubblico e privato, tra lavoro e riposo.

Uno che conosco da un paio d’anni vive al contrario: di giorno al lavoro chatta e gioca di nascosto, di notte a casa lavora, ma poi non riesce a dormire e allora fa la spesa o si ammazza di serie tv («Il nostro unico competitor è il sonno», ha detto nel 2017 Reed Hastings, l’amministra­tore delegato di Netflix). Il suo tempo è esploso in una miriade di istanti scollegati tra loro e di stimoli che sgomitano interrompe­ndosi l’un l’altro per ottenere attenzione. La scansione novecentes­ca dei ritmi di vita è saltata, il tempo è un impasto in cui tutto è confuso e interrotto, nel bene e nel male. Il virus è stato l’accelerato­re di processi già in atto. Il microscopi­o che li ha fatti apparire. ➡ TEMPO DI LETTURA: 4 MINUTI

GIACOMO PAPI,

scrittore, giornalist­a, autore televisivo e direttore del Laboratori­o Formentini per l’editoria della Fondazione Mondadori. I suoi ultimi libri sono Happydemia (Feltrinell­i, 2020) e Italica (Rizzoli, 2022).

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