NON SOLO SPERANZA: CI VUOLE DISSENSO ORGANIZZATO
LÕerrore più grande del nostro tempo è pensare che «prima o poi le cose cambieranno» e affidare il cambiamento alla speranza. Quando parliamo di violenza e di discriminazione di genere, la speranza che le cose andranno meglio è la prima reazione, accompagnata poi da un vago senso di impotenza. La parità di genere? Noi non la vedremo, ci ripetiamo. E se ci sbagliassimo?
C’erano i discepoli della speranza quando le donne non potevano votare, quando esisteva il matrimonio riparatore, quando l’interruzione volontaria di gravidanza non era concessa mai, neppure in caso di stupro.
Sui corpi delle donne si è giocata una battaglia alla speranza, che non ha coinvolto mai in maniera seria e collettiva il mondo intero. Ci dicono che il patriarcato è un’idea desueta, che ormai abbiamo tutto: che altro dovremmo desiderare? È vero, alcune conquiste le abbiamo avute: il «femminicidio» ha un nome proprio; la condivisione non consensuale di materiale intimo è punita dall’articolo 612 ter del Codice Penale; usiamo i femminili singolari di mestieri prima solo declinati al maschile. Eppure, muoiono sempre più donne. E non abbastanza hanno accesso alle posizioni apicali nell’azienda per cui lavorano e che quasi mai gestiscono.
Dove abbiamo sbagliato? Ci siamo accontentate delle briciole, sperando che prima o poi qualcuna avrebbe fatto meglio di noi. Le invidiamo le donne che nasceranno, come se a loro toccherà un mondo dove il patriarcato sarà solo un terribile ricordo. Non c’è bugia più grande. Il cambiamento non è domani. Il cambiamento è oggi. Manchiamo di audacia e di organizzazione. La società capitalista ci ha convinte che vince solo la migliore e che l’alleanza dal basso sia una mera stronzata.
Eppure, se domani tutte le donne italiane, metà della popolazione, smettessero di fare il lavoro gratuito di cura ed educazione, questa nazione si fermerebbe. Allora qualcuno verrebbe a chiederci: «Che cosa volete?». Noi risponderemmo presentando il nuovo statuto del mondo femminista che, guarda caso, non permette più al sistema dei padri e dei padroni di accontentare i nostri desideri. Non è utopia, non è speranza: è organizzazione collettiva.
C’erano i discepoli della speranza e ci sono ancora, ma dovremmo iniziare a dichiararci discepoli dell’intransigenza: ogni volta che una donna paga pegno per essere tale, dovremmo pensare di unire tutte le forze in nostro potere per contrattaccare.
La speranza è amica del cambiamento solo se la alimentiamo con il fracasso: parole, gesti, marce, voci, esistenze, vite, corpi.
I poteri forti, politica e cultura, ci sembrano insormontabili solo perché li abbiamo sempre affrontati da sole. Il cambiamento che vogliamo ha un nome: dissenso organizzato. Chi può vederlo? Chiunque, anche molto prima di poi.