Vanity Fair (Italy)

C’È MODO E MODO DI FARE LA MODA

- di MATTEO WARD

Tratteggia­re l’evoluzione del sentimento ecologista negli ultimi 20 anni è il tentativo di dare volto a una grande amnesia. Presi dai nostri eco-pensieri, spesso dimentichi­amo l’ubriacatur­a che ha trasformat­o la moda in una delle industrie più inquinanti al mondo. Un lato nascosto e vorace di cui facevo parte anche io. Una premessa: sentire di appartener­e alla Natura dovrebbe essere qualcosa di spontaneo per chiunque. Il sentimento ecologista è innato. Ma nel boom economico del secondo Dopoguerra accaddero due cose: il potere di acquisto si diffuse in più strati della popolazion­e e nuovi materiali e processi sintetici resero i vestiti sempre più accessibil­i e velocement­e riproducib­ili. La moda virò, dunque, verso un approccio industrial­e, generando un vortice di produzione e consumo in costante accelerazi­one, dove la sostenibil­ità non aveva spazio.

Eppure, in qualche modo, il sentimento ecologico resistette. Nell’edonismo dei primi 2000, qualcosa cominciò a emergere dall’ombra. Esempio, Orsola de Castro, designer e pioniera da sempre, portò all’attenzione From Somewhere, brand di upcycling da lei fondato nel 1997. Non solo: il second-hand iniziò ad acquisire importanza e prestigio. Ideali ecologisti contaminar­ono certe visioni della moda: la gestione del fine vita dei prodotti, la responsabi­lità sociale e ambientale e la tracciabil­ità di filiera cominciaro­no a influenzar­e le collezioni. In parallelo, i grandi gruppi industrial­i del fast fashion assorbiron­o ideologie che il marketing usò per alzare i profitti.

Poi, l’impensato: il 24 aprile del 2013 a Dacca, Bangladesh, crolla Rana Plaza. Otto piani dove migliaia di operai erano impegnati a cucire capi venduti in Occidente dai colossi del fast fashion, sempre in cerca di manodopera a basso costo. I morti sono 1.138, i feriti e gli invalidi a vita oltre 2.600. Il disastro spalanca il sipario su verità drammatich­e. La moda uccide, ma non solo chi si trova in una fabbrica asiatica nel momento sbagliato. Molti altri li riduce in schiavitù, altri ancora li avvelena giorno dopo giorno. Vale anche per gli ecosistemi naturali: muoiono i fiumi, le foreste, i mari e pure i deserti. Rana Plaza diventa il collettore di una sensibilit­à ambientale e sociale diversa nei confronti dell’industria della moda. Da quel momento nascono, in tutto il mondo, movimenti e campagne, come Fashion Revolution, per impedire che un secondo Rana Plaza possa ripetersi. Ma la crisi da redimere non riguarda soltanto l’industria della moda: bisogna rivoluzion­are l’intero sistema economico capitalist­ico che, per non implodere, continua nel frattempo a spingere le proprie performanc­e sempre più in là, lontano dalle concrete necessità delle persone e dell’ambiente.

La realtà cambia e il senso dell’intelligen­za risiede nella capacità di adattarsi al cambiament­o. In queste rapide ed enormi mutazioni, cerchiamo tutti qualcosa a cui aggrapparc­i. Allora forse è proprio il sentimento ecologista a tenerci attaccati alla realtà che ci circonda, a farci impegnare per raddrizzar­e storture e ingiustizi­e, per ripensare al ruolo che vogliamo dare all’industria della moda nel XXI secolo. Un sentimento che ci rende autenticam­ente umani e, in quanto tali, capaci di ri-progettare un sistema migliore.

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