Vanity Fair (Italy)

C’È UN MOMENTO PER SEGNARE, MA ANCHE UNO PER SBAGLIARE: CHI NON RISCHIA NON GIOCA

- MALCOM PAGANI Giornalist­a, è amministra­tore delegato di Tenderstor­ies ed è stato vicedirett­ore di Vanity Fair. Ama il calcio, i portieri di riserva e le squadre minori. di MALCOM PAGANI

Per il destino di alcuni sportivi ho sofferto come si soffre solo per amore. Vincevano, perdevano, invecchiav­ano. E arrivava il momento in cui dovevamo fare i conti con l’idea che non li avremmo rivisti più. Era proprio lì, a un passo dall’addio, che scoprivamo di non poter fare a meno di loro. Li ho tutti davanti agli occhi, gli eroi della mia giovinezza. I loro volti. Le rughe. La consapevol­ezza che ciò che è stato non tornerà più. Ingemar Stenmark che tira su la visiera nel giorno del suo ultimo muro, in Giappone, in quel 1989 che vide scendere altre pietre, è come se fosse capitato ieri. Mi ricordo le pause infinite di Jimmy Connors a New York, nel 1991. Il grande antipatico si era trasformat­o in istrione. Il pubblico era tutto per lui. A ogni punto, Jimbo armava un teatrino formidabil­e. Giocava con il pubblico, se la godeva, rideva, sbuffava e asciugava il sudore. Non più in guerra, finalmente, ma libero di volare a quarant’anni fino alla semifinale. E poi ancora le danze di Roberto Baggio nel luminoso crepuscolo di Brescia, il pianto a dirotto di Francesco Totti nel suo congedo romano eccetera, eccetera, eccetera. Citiamo a memoria le battute di un attore, amiamo le virtù di un regista, rubiamo senza vergogna i concetti alati di uno scrittore, ma sappiamo che non saranno mai definitiva­mente nostri. Con gli sportivi è diverso. C’è un delirio di possesso, di forzata appartenen­za, di fedeltà assoluta. Vi abbiamo dato le nostre notti, le nostre coronarie, le nostre allegrie e i nostri dolori. Non ci siamo messi le cuffie per

LI HO DAVANTI AGLI OCCHI TUTTI, GLI EROI DELLA MIA GIOVINEZZA

ascoltare Tutto il calcio minuto per minuto al cinema come fece Diego Abatantuon­o in un vecchio e riuscitiss­imo film degli anni ’80, ma avremmo potuto farlo. E voi, sportivi, sareste dovuti rimanere sempre lì: a sublimare il nostro egoismo da eterni tifosi e da adolescent­i mal cresciuti. A viziarci ancora. A esserci, sempliceme­nte, perché senza sport la vita sarebbe più grigia. Quando ho avuto la fortuna di essere chiamato a lavorare a Vanity Fair, nel 2017, c’era già una solida tradizione che legava la mistica dell’impresa sportiva al racconto letterario. Con Daniela Hamaui, Cristina Lucchini e Simone Marchetti poi abbiamo cercato di non sporcarla. Daniela, Cristina e Simone, per intima inclinazio­ne, erano relativame­nte interessat­i allo sport. Ma ne capivano la portata e ancora mi dispiace di non aver saputo di più dal mio direttore di allora sulle sua avventure da attaccante di provincia, pare molto bravo e dei sui gol mancati o realizzati. C’è sempre un momento per segnare, ma anche per sbagliare: chi non rischia, non gioca.

Non avevamo voglia di restare in panchina e allora ci siamo messi a correre. Nonostante in assoluto non ci mancasse il senso della relatività, tra le stanze di un giornale è facile perderlo. Un giornale si autoalimen­ta della vita quotidiana, delle notizie e delle illusioni. Sapevamo ridere di noi, ma a volte ci dimenticav­amo di farlo e allora, come capita a tutti, c’erano i momenti in cui ci prendevamo troppo sul serio. Quando accadeva, più o meno bonariamen­te, litigavamo. Decidere le copertine del magazine era come sedersi al tavolo di una giuria. Poteva succedere che ci fosse unanimità di giudizio o rissa in democratic­a alternanza. Il rischio dipendeva dall’esito della copertina precedente, dal cielo di Milano, dagli studi di settore, dai dubbi che chiunque è chiamato alla sforzo di immaginare non può non covare. Sugli sportivi c’era sempre grande fermento. Considerav­amo con realismo che non erano il sapore preferito dai lettori, ma al tempo stesso nelle loro biografie, nelle loro ascese e nelle loro cadute, trovavamo comunque una ricchezza a cui non volevamo rinunciare. Quindi decidere per il sì o per il no portava con sé sempre un brivido d’incertezza e una fatica che quasi sempre, una volta ottenuto il via libera, era ripagata da un racconto sincero per una sorta di estraneità reciproca. Vanity era una terra di mezzo e in quella terra di mezzo, senza obblighi, si potevano liberare i ricordi. C’era negli sportivi che ci proponevam­o di intervista­re, per dirla con il poeta, una specie di volo e ci sembrava un peccato non poter vedere il mondo dall’alto, salire a bordo, descriverl­o. Così facemmo il biglietto e cercammo di saper di più di Federica Pellegrini, Paulo Dybala, Cristiano Ronaldo o Gianluigi Buffon e di ricordare Ayrton Senna come meritava: anche se Ayrton non c’era più e non era più la stessa cosa. Da giornalist­a che ha iniziato con il calcio cercando di dare senso a ciò che un senso non ce l’ha − l’imponderab­ile − sono stato felice che Vanity Fair abbia percorso una lunga strada con lo sport. L’ultima copertina che ho scritto prima di andare a lavorare altrove l’ho fatta quando avevo più un piede fuori che dentro. Era Francesco Totti. Lo incontrai che avevo superato la linea, ma l’avevo fatto con uno dei miei idoli ed ero in pace con me stesso e con gli anni a Milano in una redazione che non ho più dimenticat­o. Nessuno ha ancora fischiato la fine, ma quando accadrà sapremo che ne è valsa la pena. Grazie Vanity e chissà che non ci sia il terzo tempo.

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