NON DITE ABITI E ACCESSORI. SONO OGGETTI MAGICI. E CI HANNO CAMBIATI
Fa riflettere la maniera in cui la moda – ma sarebbe meglio dire gli oggetti della moda – viene restituita da Alex Majoli, fotoreporter abituato a comunicare la drammaticità di molte di quelle aree del mondo che chiamiamo «zone di conflitto». È un’interpretazione, fornita con la collaborazione dello stylist Kaduri Elyashar, che definisce un preciso spazio della rivista e riformula la percezione di alcuni dei fashion pieces che hanno costellato non solo le narrative della moda nei vent’anni di Vanity Fair Italia ma anche la vita di tutti noi. Alcuni di questi oggetti ci siamo limitati a guardarli sulle pagine delle riviste oppure a desiderarli dalle vetrine dei negozi. Altri li abbiamo acquistati, indossati e sono diventati parte delle nostre vite, aiutandoci a prendere consapevolezza di noi, a riconoscerci davanti allo specchio. Ora, grazie allo sguardo di Majoli, si mobilitano altre suggestioni, anche per me che ho curato la scelta della moda che appare in queste pagine, una scelta d’altronde non assertiva, volutamente aperta a molte altre possibilità. Ho rivisto recentemente Una giusta causa, il film di Mimi Leder del 2018 sulla leggendaria vita di Ruth Bader Ginsburg, avvocata in lotta per i diritti delle donne, arrivata fino alla Corte suprema degli Stati Uniti. C’è una frase che mi ha colpito: «La legge non si fa in base al tempo del giorno, ma al clima di un’epoca». Credo che queste parole dovrebbero essere applicate in molti campi, oltre naturalmente che in quello legislativo, e ora, mentre scrivo, mi sono venute alla mente perché possono aiutarci anche a capire le ragioni che agiscono nel selezionare certi oggetti anziché altri quando guardiamo un determinato arco di tempo, oppure un determinato autore. È il gusto del tempo che influenza il nostro modo di vedere le cose e le nostre scelte.
Avanguardia, universalismo, progresso, radicalità appartengono al secolo scorso, mentre propri del nostro sono l’aderire al presente, la sperimentazione, il relativo, il fluido, la geopolitica, i diritti: sono questi i principi che agiscono nella contemporaneità e determinano le sue forme. Ogni proposta relativa ai prodotti della moda è però anche strumento per mettere in discussione le convenzioni del tempo a cui appartengono, oltre a quelle del fare abiti.
La moda raccolta in questo servizio è quella del dopo 11 settembre 2001. È la moda della definitiva affermazione dei gruppi del lusso, della consacrazione della figura del direttore creativo e della direttrice creativa, degli analisti finanziari che giudicano e commentano le performance dei brand. È la moda che definitivamente si appropria delle pratiche dell’arte contemporanea e spesso del lavoro degli artisti. È la moda dell’accettazione di nuovi paradigmi estetici che riflettono la consapevolezza che oggi, quando si tratta di moda, o comunque di stili, il cortocircuito tra valori culturali e pratiche di produzione, di mercato e di comunicazione è deflagrante. Moda matura che agisce su piani diversi. Paradosso concettuale. Messa in discussione delle pratiche. Trasformazione, cambiamento, rottura che non viene dal basso ma si impone dall’alto. Gesto non previsto, e per questo rivoluzionario. Che usa le regole per trasformarle, trasgredirle o seguirle rivelandone l’attualità.
Gli oggetti selezionati per questo servizio creano contemporaneamente una narrazione di insolita ampiezza temporale e culturale. Il modo in cui agiscono li fa apparire come perfette rappresentazioni degli oggetti magici calviniani, quelli posti al centro di un campo di forze magnetiche. Scrive Italo Calvino: «Diremmo che dal momento in cui un oggetto compare in una narrazione, si carica di una forza speciale, diventa come polo d’un campo magnetico, un nodo d’una rete di rapporti invisibili. Il simbolismo di un oggetto può essere più o meno esplicito, ma esiste sempre. Potremmo dire che in una narrazione un oggetto è sempre un oggetto magico». Non esistono tuttavia narrazioni impersonali e fuori dal tempo: gli oggetti di questo servizio sono stati attivati dallo sguardo del curatore e dal suo gesto, in un preciso momento, che viene subito oltrepassato, dunque rendendo gli oggetti altrettanto istantaneamente disponibili a una rimessa in discussione. È l’affermazione implicita (ma non per questo meno decisa) che la moda si rigenera costantemente in un reticolo di idee in continua espansione.
La celebrazione dei vent’anni di Vanity Fair
si fonda allora su una stratificazione di temporalità, una costellazione di argomenti e tesi, una lista incompleta, una serie di appunti, divagazioni, scarabocchi, una mappa di allusioni e inciampi. Un inventario di dimenticanze. Un work in progress che si propone quale sommario di atteggiamenti e metodi, di conversazioni, di memorie, di ricerche che si rivelano costitutive di un cantiere aperto.
Un cantiere aperto che è impronta del desiderio di esprimere una complessità. Superamento dell’idea del gesto poetico fine a sé stesso, dell’idea del creatore, del direttore creativo come sciamano (lo è, anche, ma non solo). Una coreografia di curiosità. Una cosmogonia di attitudini che tiene insieme la trasformazione dei corpi, delle teste e quindi la trasformazione dei modi di rivestire quei corpi e quelle teste, di determinare quel «siamo tutti diversi» rivendicato dalla teologa femminista e suora benedettina Teresa Forcades nel suo libro: Siamo tutti
diversi. Per una teologia queer (editore Castelvecchi 2016). Di lei consiglio di leggere in rete la bellissima intervista fattale da Michela Murgia, che è presenza irrinunciabile di questa edizione speciale di Vanity Fair.
Il servizio di Alex Majoli è dunque espressione di una molteplicità intesa come interrogazione permanente, apertura, creazione, invenzione, ri-creazione e re-invenzione, di noi e delle narrazioni di noi, personali e collettive.