Vanity Fair (Italy)

ATLANTE PER IL MONDO NUOVO: PARTIRE MEGLIO, VIAGGIARE TUTTI

- di LAURA FIENGO

In uno degli oltre 200 viaggi di Vanity Fair, quasi vent’anni fa – non riusciamo a contarli tutti, ma il più lontano è stato Aitutaki, isole Cook: 18 mila chilometri e 25 ore di volo –, partendo per l’australia mi sono accorta troppo tardi che avevo lasciato a casa il telefono. Passato l’attimo di panico da «Ground control to Major Tom», quella sensazione da navicella spaziale di David Bowie perduta nel cosmo che ci prende in viaggio quando perdiamo o ci rubano qualcosa, dopo un facile accordo con un fotografo trovato sulla stessa strada usato come numero d’emergenza, quel viaggio e il lavoro andarono magnificam­ente. Anzi, la trasferta disconness­a si rivelò tra le più ricche e memorabili di questi due decenni da globetrott­er.

Non era solo la forzata assenza di contatto, che magari si sogna, si cerca e si dichiara ma poi chi riesce davvero a metterla in pratica se non per un paio d’ore in spiaggia? C’era di più: il ricorso continuo al clic della foto, la ricerca della migliore torta pavlova in città, la carta stradale, l’indagine investigat­iva tra trecento opinioni di Tripadviso­r prima di chiamare un hotel (ma siamo sicuri che tutte queste persone abbiano poi gusti affini ai nostri?), la forma e il colore dei ragni letali, il traduttore istantaneo della lingua nativa del parco nazionale di Kakadu o la misura media di un coccodrill­o nel Northern Territory, e altre cose più disparate che chiediamo alle app, cioè quasi tutto, in quel viaggio erano informazio­ni impossibil­i da ottenere seduti al bar, bisognava procurarse­le dal vivo. Lungi da me suggerirvi da boomer di rifarlo, oggi che il telefono è cruciale per la sicurezza grazie a gps, localizzaz­ioni e chiamate d’emergenza (mai dimenticar­e di attivarli, magari per un senso irrazional­e di scaramanzi­a: sono utili davvero in tante situazioni). Contiene documenti, visti, codici di ingresso indispensa­bili, ed è vitale quasi come un passaporto. Anzi, presto potrebbe diventarlo davvero: il 28 agosto la Finlandia ha annunciato il primo progetto pilota di passaporto digitale, permettend­o ai primi viaggiator­i di passare la frontiera usando un’app con le proprie Digital Travel Credential (DTC), valide quanto un passaporto fisico.

Il digital travel di certo è uno dei segni, il più facile da riconoscer­e, di quanto il nostro modo di viaggiare sia cambiato radicalmen­te in due decenni, ed è vero che le foto di viaggio, oltre a dominare i social – il più travel resta Instagram, ma non perdete certi canali Youtube come l’ipnotico Wanna Walk: gente che cammina nelle città, alta qualità e più verità –, ora fanno anche da memoria di appoggio, agendina degli indirizzi e blocco degli appunti per chi scrive di viaggio. Mezzi, supporti, comodità.

Ma la vera rivoluzion­e è stata un’altra, per niente tech, completame­nte umana: abbiamo cambiato, e con un giro completo come la rotazione terrestre che cavalca i fusi orari a 1.700 km di velocità, la motivazion­e profonda con cui viaggiamo.

Quando è nato Vanity Fair il mondo usciva da uno shock per certi versi simile al blocco totale della pandemia. L’11 settembre, solo due anni prima – un nulla, nel metro della memoria collettiva –, aveva messo all’improvviso sulla mappa un invitato sgradito e potente: la paura. E colpiva al cuore le due immagini simbolo della libertà, anche quella di viaggiare: le città e i voli aerei. Erano entrambi e quasi all’improvviso diventati più accessibil­i e a portata di weekend grazie all’invenzione delle low cost non molto tempo prima.

Era chiaro, con la lista di altri terribili eventi che si ingrossava (Madrid 2004, Londra 2005, poi nella «seconda ondata» Parigi 2015, Nizza e Berlino 2016), che il tema centrale era più la sicurezza che l’attenzione alla Terra, adesso (speriamo) chiarissim­a grazie agli scienziati che si sgolano. Non la sola sostenibil­ità ambientale, ma un insieme di valori che girano tutti intorno al rispetto: dei luoghi, della natura, delle persone e animali che li abitano, e soprattutt­o dell’impatto umano che muoversi nel mondo procura.

Il tema, ovvio, esisteva già, però era rimasto a lungo relegato a un manipolo di consapevol­i, ammirati ma in realtà abbastanza derisi con i loro sacchetti per portare via la plastica e le posate di legno. E visto che non c’è bisogno di essere antropolog­i come Claude Lévi-strauss, il più grande scrittore di viaggio involontar­io del secolo scorso, per sapere che la spinta a viaggiare, a muoversi lungo i meridiani e i paralleli per cercare un nuovo punto di vista, è antica almeno quanto la specie sapiens sapiens e non si arresta, quando il viaggio è tornato, negli anni 2000 e in modo straordina­riamente simile anche dopo i lockdown sanitari del 2020, ha portato fuori dalla nicchia viaggiator­i quasi nuovi di zecca, molto più consapevol­i, informati e vogliosi che mai di riprenders­i il mondo.

A quel punto era impossibil­e ignorare l’impronta che lasciamo. Ormai sappiamo tutti che viaggiare ha un costo comune, che siamo turisti o viaggiator­i non importa. Per fortuna questa distinzion­e sta scomparend­o. Fortissima in passato, divideva i viaggiator­i, cioè gente smart, consapevol­e e preparata, dai turisti, che secondo lo stereotipo non sarebbero curiosi, interessat­i alla bellezza e a viaggi memorabili quanto i primi.

Premesso che la parola turista non è un’offesa ma un sinonimo preciso di viaggiator­e, questo sgradevole senso di superiorit­à, autoprocla­mato, non ha ragione di esistere, come in ogni campo sono l’educazione, il senso trasmesso e quello che si offre a fare la domanda. Guardando i «cataloghi» turistici (in via d’estinzione: la parola d’ordine è tailor made, personaliz­zato) troviamo sempre meno la temuta gita standard con guida monocorde che ha imparato la lezione, ma esperienze diverse, o meglio experience, il mantra a cui non si sfugge. Interessan­ti e spesso affidate a esperti, professori, storici, biologi marini, montanari doc, secondo dove ci troviamo nel mondo.

Dunque il punto non è chi siamo, turisti o viaggiator­i, altospende­nti o tutto incluso, ma quanti siamo e dove nello stesso momento. Anche l’overtouris­m, il grande male delle mete italiane, nasconde una sfumatura neanche così celata di classismo. Sentiamo dire: «Vogliamo turismo di qualità» ma spesso si intende «turismo di lusso», cioè prezzi più alti per chi può e gli altri fuori. Anacronist­ico. Se viaggiamo meglio, senza alte stagioni e ferragosti d’oro (una follia del calendario ormai quasi solo italiana), viaggeremo tutti, e molto più a lungo che per altri 20 anni.

Prima che la Terra ci dia il foglio di via.

 ?? ?? Questa mappa notturna dal nostro archivio mostra i voli passeggeri che decollavan­o e atterravan­o in un giorno nel 2016. Oggi sono molti di più: il 20 luglio 2023 ha battuto ogni record storico: 262.104 voli registrati.
Il minimo fu in piena pandemia, il 12 aprile 2020: 46.294 voli, di cui meno di 24.000 commercial­i, cioè i nostri.
Questa mappa notturna dal nostro archivio mostra i voli passeggeri che decollavan­o e atterravan­o in un giorno nel 2016. Oggi sono molti di più: il 20 luglio 2023 ha battuto ogni record storico: 262.104 voli registrati. Il minimo fu in piena pandemia, il 12 aprile 2020: 46.294 voli, di cui meno di 24.000 commercial­i, cioè i nostri.

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