Israele: chi ci guadagna
DALL’ATTACCO DI HAMAS
C'è qualcuno che ci guadagna qualcosa dall’attacco senza precedenti di Hamas a Israele, sabato 7 ottobre? Il gruppo terroristico di Hamas sa di andare incontro alla reazione delle forze armate israeliane e che non c’è confronto in termini di potenza di fuoco. Ma Hamas ha già ottenuto due risultati importanti: il primo, tattico, di aver dimostrato che l’imponente apparato di intelligence e di tecnologia di Israele può essere bucato dalla spregiudicatezza del gruppo palestinese che dal 2007 comanda a Gaza. L’attacco, sotto una copertura di centinaia di razzi, è stato in puro stile terroristico, via terra, via mare, perfino da deltaplani, con famiglie sterminate, ostaggi brutalizzati e portati a Gaza. Il secondo risultato di Hamas è strategico: sabotare l’accordo in discussione tra Israele e Arabia Saudita, mediato dagli Stati Uniti, che vuole ritrovare nella monarchia saudita un alleato affidabile nell’area dopo il ventennio della diffidenza (dal 2001 dei terroristi sauditi di Osama Bin Laden al 2018 con l’editorialista del Washington
Post Jamal Khashoggi smembrato). Washington sperava in un accordo che avrebbe ammorbidito la posizione di uno degli Stati più ostili a Israele: la tregua con la monarchia di riferimento per l’islam sunnita avrebbe lasciato isolata la teocrazia sciita dell’iran, sponsor del terrorismo anti-israeliano di Hamas a Gaza e di Hezbollah in Libano. Per compiacere il padre Salman e gli altri alleati arabi, il principe Mohammed Bin Salman chiedeva però un’apertura concreta di Israele verso i palestinesi, visto che Riad è parte della coalizione di Paesi che dal 2002 chiede formalmente uno Stato palestinese. L’attacco di Hamas ha complicato tutto: nel primo comunicato del ministero degli Esteri la monarchia saudita ha censurato «l’escalation» di violenza attribuita alla «occupazione» israeliana dei territori palestinesi. Non una parola di censura su Hamas. In questo nuovo clima è quasi impossibile che il governo di Gerusalemme attui alcuna distensione verso i palestinesi di Gaza o quelli della West Bank, governati dai concorrenti di Hamas, il partito Fatah.
«Siamo in guerra», ha subito detto il primo ministro Benjamin Netanyahu che dovrà rispondere delle inadeguatezze nell’apparato di sicurezza, ma che in questo disastro vede sicuramente anche un’opportunità.
Da gennaio centinaia di migliaia di israeliani protestano contro il tentativo di riforma delle istituzioni voluto dal premier per togliere alla Corte suprema il potere di sindacare le decisioni e perfino le nomine del governo. Netanyahu, che è anche sotto inchiesta per corruzione dopo una carriera di scandali e polemiche, potrà sfruttare la crisi per assecondare le pulsioni più antipalestinesi degli alleati di estrema destra e per ricompattare un Paese che pareva sull’orlo della guerra civile. In tempo di guerra, chi critica il comandante in capo può essere tacciato di tradimento.
Se l’iran – principale sostenitore di Hamas – sperava che il caos bloccasse gli accordi con la’ rabia Saudita e indebolisse ancora la già fragile democrazia israeliana, per il momento può considerare la missione compiuta.