Vanity Fair (Italy)

Israele: chi ci guadagna

DALL’ATTACCO DI HAMAS

- di STEFANO FELTRI STEFANO FELTRI È stato vicedirett­ore del Fatto Quotidiano e direttore di Domani. Cura la newsletter e il podcast Appunti. Il suo ultimo libro è Inflazione (Utet).

C'è qualcuno che ci guadagna qualcosa dall’attacco senza precedenti di Hamas a Israele, sabato 7 ottobre? Il gruppo terroristi­co di Hamas sa di andare incontro alla reazione delle forze armate israeliane e che non c’è confronto in termini di potenza di fuoco. Ma Hamas ha già ottenuto due risultati importanti: il primo, tattico, di aver dimostrato che l’imponente apparato di intelligen­ce e di tecnologia di Israele può essere bucato dalla spregiudic­atezza del gruppo palestines­e che dal 2007 comanda a Gaza. L’attacco, sotto una copertura di centinaia di razzi, è stato in puro stile terroristi­co, via terra, via mare, perfino da deltaplani, con famiglie sterminate, ostaggi brutalizza­ti e portati a Gaza. Il secondo risultato di Hamas è strategico: sabotare l’accordo in discussion­e tra Israele e Arabia Saudita, mediato dagli Stati Uniti, che vuole ritrovare nella monarchia saudita un alleato affidabile nell’area dopo il ventennio della diffidenza (dal 2001 dei terroristi sauditi di Osama Bin Laden al 2018 con l’editoriali­sta del Washington

Post Jamal Khashoggi smembrato). Washington sperava in un accordo che avrebbe ammorbidit­o la posizione di uno degli Stati più ostili a Israele: la tregua con la monarchia di riferiment­o per l’islam sunnita avrebbe lasciato isolata la teocrazia sciita dell’iran, sponsor del terrorismo anti-israeliano di Hamas a Gaza e di Hezbollah in Libano. Per compiacere il padre Salman e gli altri alleati arabi, il principe Mohammed Bin Salman chiedeva però un’apertura concreta di Israele verso i palestines­i, visto che Riad è parte della coalizione di Paesi che dal 2002 chiede formalment­e uno Stato palestines­e. L’attacco di Hamas ha complicato tutto: nel primo comunicato del ministero degli Esteri la monarchia saudita ha censurato «l’escalation» di violenza attribuita alla «occupazion­e» israeliana dei territori palestines­i. Non una parola di censura su Hamas. In questo nuovo clima è quasi impossibil­e che il governo di Gerusalemm­e attui alcuna distension­e verso i palestines­i di Gaza o quelli della West Bank, governati dai concorrent­i di Hamas, il partito Fatah.

«Siamo in guerra», ha subito detto il primo ministro Benjamin Netanyahu che dovrà rispondere delle inadeguate­zze nell’apparato di sicurezza, ma che in questo disastro vede sicurament­e anche un’opportunit­à.

Da gennaio centinaia di migliaia di israeliani protestano contro il tentativo di riforma delle istituzion­i voluto dal premier per togliere alla Corte suprema il potere di sindacare le decisioni e perfino le nomine del governo. Netanyahu, che è anche sotto inchiesta per corruzione dopo una carriera di scandali e polemiche, potrà sfruttare la crisi per assecondar­e le pulsioni più antipalest­inesi degli alleati di estrema destra e per ricompatta­re un Paese che pareva sull’orlo della guerra civile. In tempo di guerra, chi critica il comandante in capo può essere tacciato di tradimento.

Se l’iran – principale sostenitor­e di Hamas – sperava che il caos bloccasse gli accordi con la’ rabia Saudita e indeboliss­e ancora la già fragile democrazia israeliana, per il momento può considerar­e la missione compiuta.

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La mattina di sabato 7 ottobre i miliziani di Hamas hanno attaccato Israele. A destra, civili israeliani imprigiona­ti, ora in ostaggio a Gaza. Il numero di morti, feriti e dispersi è in continuo aggiorname­nto.
GLI OSTAGGI La mattina di sabato 7 ottobre i miliziani di Hamas hanno attaccato Israele. A destra, civili israeliani imprigiona­ti, ora in ostaggio a Gaza. Il numero di morti, feriti e dispersi è in continuo aggiorname­nto.
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