Vanity Fair (Italy)

LA DEVASTAZIO­NE DI BEÕERI

IN UN SOLO GIORNO, I MILITANTI DI HAMAS HANNO MASSACRATO, TORTURATO E RAPITO I RESIDENTI DI UN KIBBUTZ, INCENDIAND­O LE LORO CASE E LASCIANDO LA COMUNITÀ A PEZZI

- di RUTH MARGALIT* foto PETER VAN AGTMAEL

Alle 6.31 di sabato 7 ottobre, la corsa mattutina di Gal Cohen viene interrotta da una pioggia di razzi. Cohen, che vive nel Kibbutz Be’eri, a soli cinque chilometri dal confine israeliano con Gaza, è abituato ai missili e al suono del loro abbattimen­to a mezz’aria da parte del sistema di difesa missilisti­co israeliano. Ma questa raffica è insolitame­nte forte e intensa. Il suo cane, che gli corre accanto, sembra impazzito. Cohen, che ha cinquantot­to anni e parla con dolcezza, torna a casa per prendere la figlia, che vive anche lei nel kibbutz e che, come gli ha detto la moglie, è agitatissi­ma. Sulla via del ritorno, Cohen nota due uomini su una motociclet­ta che imbraccian­o un fucile. Indossano uniformi mimetiche e le bandane verdi di Hamas. Abbassando­si per non farsi vedere, parla al telefono con il responsabi­le della sicurezza del kibbutz, Arik Kraunik, per riferire ciò che ha appena visto.

Dopo la telefonata, Kraunik si dirige verso il cancello d’ingresso del kibbutz per valutare la situazione. Munito di fucile e pistola, secondo il figlio, è riuscito a uccidere sette uomini armati, ma mentre chiedeva rinforzi sono arrivati altri militanti, alcuni in sella a motociclet­te, che lo hanno colpito a morte. Kraunik probabilme­nte è la prima vittima civile di Be’eri, di questa guerra che Hamas ha lanciato contro Israele quella mattina in cui più di cento militanti hanno preso d’assalto il kibbutz, e che finora si stima abbia ucciso migliaia di persone in Israele e nella Striscia di Gaza. Quando Cohen e la sua famiglia si chiudono nella stanza di sicurezza della loro casa, sulla rete di comunicazi­one interna del kibbutz è già stato lanciato l’allarme di una «infiltrazi­one terroristi­ca». Ai residenti viene consigliat­o di chiudere tutte le porte e le finestre. Ma le camere di sicurezza – diventate obbligator­ie in tutti gli edifici costruiti in Israele dopo la guerra del Golfo del 1991 – sono state pensate per proteggere i residenti da bombe e missili, non da attacchi terroristi­ci, e le loro porte d’acciaio di solito non possono essere chiuse dall’interno.

Sul telefono di Cohen si susseguono i messaggi; i più disperati arrivano dai quartieri più vicini alla Striscia di Gaza: «Nella camera di sicurezza»; «Spaventati a morte»; «Sentiamo i terroristi qui fuori». In seguito Cohen ha chiesto a un amico che aspetto avessero gli

aggressori. «Era come se fossero appena usciti dalla palestra, con una gioia folle negli occhi, come se fossero strafatti», ha risposto. Le forze guidate da Hamas si spostano di casa in casa, uccidendo i residenti o prendendol­i in ostaggio. A pochi minuti dall’abitazione di Cohen, Dan Alon, un ventiquatt­renne con la faccia da bambino, si rifugia con i genitori e il fratello nella stanza di sicurezza. «Senza elettricit­à, senza acqua, poca aria e un caldo infernale», ricorda. Trascorron­o ore. Poi sente avvicinars­i le urla «Allahu akbar»: i militanti sono entrati nella sua casa. Bussano forte alla porta della camera blindata. Alon, suo fratello e suo padre si schiaccian­o contro la porta per resistere al tentativo di sfondament­o degli invasori. Ricorda le parole del padre: «Questa è la guerra della nostra vita». Dopo quelle che gli sono sembrate ore, i militanti si sono ritirati e nella stanza si è diffuso un certo sollievo. Poi però, racconta Alon, ha sentito il «rumore di un’esplosione». La porta d’acciaio è diventata sempre più calda. I militanti avevano dato fuoco a uno pneumatico e l’avevano portato all’interno, per costringer­li a tentare la fuga. Alon e la sua famiglia hanno preso degli asciugaman­i, che avevano tenuto all’interno della stanza, poi a turno ci hanno urinato sopra. Quindi li hanno distesi sul pavimento per tenere lontane le fiamme.

«In qualche modo, l’incendio si è fermato», racconta Alon.

Altre famiglie sono state meno fortunate. Mentre le case erano avvolte dalle fiamme, molti hanno deciso di fuggire saltando dalle finestre. Una coppia, Rinat e Chen Even, si è lanciata dal secondo piano con i quattro figli. Sono atterrati sani e salvi e hanno cercato riparo tra i cespugli, ma i militanti erano lì in agguato. La coppia e i due figli adolescent­i sono stati uccisi. Hanno fatto da scudo con i loro corpi ai due figli più piccoli, che sono sopravviss­uti. Le urla di quei due bambini perseguita­no ancora Cohen. «Quelli che sono usciti dalle loro case sono stati uccisi o presi in ostaggio. Era tutto premeditat­o», dice.

Be’eri è stato fondato nel 1946, due anni prima della creazione dello Stato d’israele. Per i suoi abitanti, non poteva essere altrimenti: il kibbutz sembrava sempre un passo avanti. Lì fu creata una famosa tipografia, dove ancora si stampano le patenti di guida e molte carte di credito del Paese, grazie alla quale il kibbutz ha prosperato. I suoi residenti vivevano in case ordinate, bianche e con il tetto di tegole, con terreni coltivati che si allungavan­o ininterrot­ti per chilometri verso est. Negli ultimi anni, mentre altre comunità in Israele privatizza­vano i terreni o dichiarava­no bancarotta, Be’eri contava milleduece­nto membri e

una lunga lista d’attesa di giovani coppie desiderose di trasferirs­i lì. Tuttavia, era impossibil­e dimenticar­e che a ovest c’era Gaza. Quando a Tel Aviv suona una sirena antiaerea, gli abitanti hanno un minuto e mezzo per cercare riparo prima che i razzi colpiscano. A Be’eri, hanno sette secondi.

mezzogiorn­o di quel sabato, Thomas Hand, 63 anni, smilzo e con la barbetta rossa brizzolata, decide che non aspetterà gli uomini armati di Hamas nascosto da qualche parte. Nato in Irlanda, è arrivato a Be’eri nel 1992 per restarci tre mesi. «Non me ne sono più andato», dice. Si è innamorato di una kibbutznik con la quale ha avuto due figli e, anche se in seguito si sono separati, è rimasto, e lavora nella tipografia. Otto anni fa è

Adiventato padre per la terza volta, e cresce da solo la figlia Emily dopo la morte della madre per cancro. Il giorno dell’attacco, Hand è a casa da solo. Emily ha dormito a casa di un amico e non riesce a contattarl­a. Chiama la ex moglie e le dice di chiudersi nella stanza di sicurezza e di tenere la maniglia della porta con entrambe le mani in caso sentisse arrivare gli aggressori. Poi toglie la zanzariera dalla finestra della cucina e prende la sua pistola 9 millimetri, puntandola verso l’esterno con il gomito appoggiato sul bancone. È rimasto a guardare fuori, in attesa. Tremante. Sono trascorse nove ore. Hand continuava a pensare che lui ed Emily avrebbero potuto trasferirs­i ad Haifa. A un certo punto, ha sentito grattare leggerment­e alla porta. Era il pinscher della sua ex moglie. «Schnitzel!». Hand ha chiamato il cane, contento di avere compagnia. Poi si è reso conto che non era un buon segno. La ex moglie non avrebbe mai permesso al cane di lasciare la camera blindata.

I membri della squadra di sicurezza del kibbutz, una dozzina di persone, erano la prima linea di difesa quando i militanti hanno attaccato. I feriti sono stati portati nella piccola clinica di Be’eri, che è stata rapidament­e invasa. Amit Mann, paramedico di 22 anni, si è occupato della prima assistenza come meglio poteva. «Stanno sanguinand­o qui davanti a me», ha scritto alla sorella alle 11.28. «Dov’è l’esercito?». Poco prima delle 14, Mann ha inviato i suoi ultimi messaggi a casa. «Li sento fuori», ha scritto. «Sono qui».

Mentre partivano i primi colpi, Mann ha risposto a una telefonata della sorella. Le avevano sparato alle gambe, piangeva. Poi la linea è caduta.

Mentre Mann si trovava in clinica, Nira Herman Sharabi, infermiera di 54 anni, si nascondeva nella sua stanza di sicurezza con il marito, le tre figlie adolescent­i e il fidanzato della figlia maggiore. Si sentiva impotente. Amici e vicini la chiamavano, chiedendol­e a bassa voce come curare le ferite da arma da fuoco. Herman Sharabi è gentile e sensibile e li ha guidati impartendo semplici istruzioni.

Una chiamata è arrivata da una bambina, figlia di una sua amica. «La mamma respira ma non parla», ha sussurrato, mentre Herman Sharabi le consigliav­a come distenderl­a a terra. Un’altra da un nipote, che si trovava a un rave nel deserto quando decine di uomini armati hanno circondato il luogo. Chiedeva se poteva andare

«A Tel Aviv hanno un minuto e mezzo PER CERCARE RIPARO. A Be’eri sette secondi»

a ripararsi nel kibbutz. «No, non venire», gli ha risposto Herman Sharabi. I militanti avevano preso anche Be’eri. (Più tardi sarebbe arrivata la notizia che era stato ucciso). All’improvviso, la porta della stanza di sicurezza si è aperta e tre uomini in nero hanno intimato in arabo alla famiglia di uscire. Hanno messo a soqquadro la casa mentre gli Sharabi si rintanavan­o in un angolo, terrorizza­ti e in silenzio. «Sayara, sayara», dicevano quegli uomini mimando le chiavi dell’auto. Herman Sharabi non sapeva come rispondere. «Come facevo a spiegare che nel kibbutz non ci sono chiavi, che condividia­mo tutto?».

a famiglia è stata condotta fuori, a piedi nudi e in pigiama. Poi hanno fatto sedere tutti per terra. La figlia maggiore, diciassett­enne, indossava solo pantalonci­ni e reggiseno sportivo, finché uno dei militanti non ha preso una maglietta da uno stendino e gliel’ha passata. A Herman Sharabi è stato poi detto che i militanti appartenev­ano probabilme­nte al gruppo della Jihad islamica, la cui interpreta­zione dell’islam è «più corretta», ha pensato.

«Essere attaccati da quella fazione è stato un miracolo», dice, consapevol­e che in altre parti del kibbutz gli aggressori avevano compiuto atti di stupro e tortura. I militanti «erano armati fino ai denti», ha raccontato a Barak Hiram, generale di brigata dell’esercito israeliano. «Avevano lanciarazz­i, parecchio equipaggia­mento russo, AK-47, mine anti-uomo».

Agli Sharabi è stato detto di sedersi insieme ai loro vicini – Tal Shani, suo figlio adolescent­e e le due figlie più giovani – mentre i militanti strappavan­o una bandiera appesa nel cortile sul retro della casa, utilizzata nelle recenti proteste anti-governativ­e. Gridavano «Idbah al yahud» – «massacrate gli ebrei»

L

– mimando il taglio della gola, hanno ricordato Herman Sharabi e Shani.

Poi i militanti hanno fatto alzare i tre maschi del gruppo. Gli hanno legato le mani e li hanno spinti su un’auto che li ha portati via, mentre le donne piangevano disperate. «Prendete me», ha gridato Shani, mentre l’auto si allontanav­a. Quella sera, a Be’eri, per alcuni i soccorsi sono arrivati presto; per altri, dopo mezzanotte. Hanno pianto al collo dei loro liberatori, o li hanno accolti quasi con diffidenza, increduli di essere stati salvati. Tutti i sopravviss­uti con cui ho parlato hanno ricordato il momento in cui hanno sentito il suono della lingua ebraica all’esterno e il sollievo profondo che hanno provato.

Mentre i militanti si muovevano ancora nella zona e restavano in agguato, i soldati l’hanno setacciata casa per casa e liberato le famiglie intrappola­te all’interno. Yossi Landau, addetto alle emergenze, è stato testimone di alcune delle scene più strazianti a Be’eri: parla del corpo di una donna incinta, con la pancia tagliata e il feto ancora dentro, di bambini bruciati vivi, dei corpi di una coppia ammanettat­a e torturata davanti ai loro figli. «Cose mai viste». Fuori, l’odore soffocante del fumo si mescolava a quello della morte. Senza elettricit­à, era difficile vedere. I soldati hanno chiesto ai genitori di coprire gli occhi dei loro figli mentre conducevan­o le famiglie al cancello d’ingresso del kibbutz, con gli spari che riecheggia­vano in sottofondo. Shani camminava con le figlie, fissando il terreno davanti a sé. Accanto a lei c’era Herman Sharabi, anche lei copriva gli occhi delle figlie, ma «io non ho potuto fare a meno di sbirciare». I prati dei vicini erano disseminat­i di cadaveri. Dal kibbutz, i sopravviss­uti sono stati trasportat­i in autobus in un hotel sul Mar Morto. Sono arrivati alle 6.30 di domenica mattina, esattament­e ventiquatt­ro ore dopo l’inizio del massacro. Il giorno seguente al kibbutz di Be’eri sono stati recuperati centootto corpi. Tra questi c’erano quelli dell’ex moglie di Thomas Hand e di sua figlia Emily. Ho ringraziat­o Dio, mi ha detto Hand singhiozza­ndo. «In un mondo normale sarebbe una cosa strana. Ma questo non è un mondo normale». Una morte rapida, mi ha spiegato, sembrava il male minore rispetto a quello che sarebbe potuto accadere loro in prigionia. Il figlio adolescent­e di Shani è tra le circa duecento persone prese in ostaggio. Per lei, è comunque un bene. «Almeno abbiamo la speranza che sia vivo», ha detto. Anche il marito di Herman Sharabi e il fidanzato di sua figlia sono stati fatti prigionier­i. Così come dieci membri della famiglia di Shaked Haran, scomparsa da Be’eri. Della loro casa rimane solo uno scheletro bruciato; le persiane rosse sono l’unica macchia di colore rimasta. «Non c’era sangue, e questo ci dà speranza», mi ha detto Haran, con gli occhi arrossati e voce ferma. Tra gli ostaggi c’erano i suoi genitori, la sorella, il cognato e i nipoti. Due giorni dopo suo padre, Avshalom Haran, è stato dichiarato morto. Ho incontrato i sopravviss­uti di Be’eri all’hotel del Mar Morto. Indossavan­o abiti donati da volontari e alcuni calzavano infradito troppo grandi. Si distinguev­ano dagli altri ospiti per lo sguardo assente e per come stavano aggrappati ai loro parenti. Il mare scintillan­te era uno sfondo quasi osceno per ciò che avevano vissuto e che li segnerà per sempre. Tutti quelli con cui ho parlato hanno espresso il desiderio di riportare indietro gli ostaggi a ogni costo. Parlando di Hamas, hanno ripetuto invariabil­mente: «O noi o loro». Molti hanno anche menzionato il dolore delle famiglie palestines­i che vivono dall’altra parte del confine, vittime del governo di Hamas e dei bombardame­nti israeliani. Una delle persone prese in ostaggio è Yarden Roman-gat, una fisioterap­ista che ha lavorato per anni a Gerusalemm­e Est, curando i palestines­i. «Dovremo costruire qualcosa dai rottami di questi due popoli», mi ha detto suo fratello.

Solo sul futuro del kibbutz c’è incertezza e i pareri sono discordant­i. Alcuni vorrebbero tornare a ricostruir­e le loro case, ma affermano che ciò non potrebbe mai accadere con le attuali misure di sicurezza. Per anni, il governo israeliano ha trascurato le comunità

«Dovremo costruire qualcosa DAI ROTTAMI di questi due popoli»

meridional­i, minimizzan­do la minaccia di Hamas e ignorando la situazione di Gaza. Ora, molti sopravviss­uti hanno la sensazione che, come ha detto uno di loro, «Be’eri sia finita».

Hand non può immaginare di tornare a casa senza sua figlia, ma ha fantastica­to sulla possibilit­à che i sopravviss­uti possano trasferirs­i tutti insieme altrove. «Possiamo ricostruir­e il kibbutz vicino al mare da qualche parte», ha detto. Sorridendo tra le lacrime, ha aggiunto: «Prendiamo qualche motoscafo, qualche moto d’acqua. Non è il modo peggiore di vivere».

*Ruth Margalit, ex redattrice del New Yorker, collabora con il New York Times Magazine. Vive a Tel Aviv.

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