SÌ, IO MI RICORDO
«NON C’È NULLA DI PIÙ IMPORTANTE DELLA MEMORIA». COSÌ L’ARCHITETTO DANIEL LIBESKIND, CON GRATTACIELI, MUSEI E MEMORIALI DÀ FORMA ALLA STORIA
Ci siamo chiesti: chi potrebbe essere il più grande architetto da intervistare sul tema della memoria? Chi ha saputo, nelle sue costruzioni, dare forma alla Storia, intersecando le linee del tempo? Un nome: Daniel Libeskind, il gigante dell’architettura, capace di dare concretezza ai grandi concetti come la guerra, la violenza, la paura. Suoi sono il museo ebraico di Berlino, quello di Copenhagen e San Francisco, e pure il National Holocaust Monument di Ottawa. Suo il Memoriale Ground Zero a New York, il Military History Museum di Dresda e l’imperial War Museum North di Manchester. Nessuno più di lui. E così gli abbiamo chiesto quanto fosse importante continuare a ricordare, quanto il passato ha lasciato le sue tracce in questa nostra società spedita e fagocitante.
«Non c’è nulla di più importante della memoria, soprattutto in una società come quella di oggi, che può eliminare tutto con un click, schiacciando un tasto su un computer. I ricordi sono vulnerabili e – lo vediamo – sono continuamente riscritti da ideologie che minacciano il mondo. In questo senso l’architettura assume un’ulteriore importanza, perché, a differenza di altro, non può essere portata via con un semplice click. Una costruzione non può essere rimossa con la stessa facilità con cui si vieta un libro. L’architettura è parte dello spazio pubblico: incontra sia la memoria del singolo sia quella della comunità e ha il potere di essere non solo il contenitore, ma anche il custode della memoria».
Per costruire il futuro, quanto dobbiamo guardare al passato e quanto dobbiamo inventare di nuovo?
«Ciò che rende l’architettura così interessante – e che impedisce anche che cambi rapidamente – è che si basa su sedimenti di memoria, che in gran parte risiedono nell’inconscio. Possiamo paragonare la città alla mente umana. Portiamo con noi strati e strati di storia invisibile, ma abbiamo accesso solo alla punta dell’iceberg. La memoria diventerà molto più importante in futuro. Non è l’informazione che conta – possiamo ottenere informazioni cercando banalmente su Google e cliccando – ma conta il significato e il significato ultimo non può essere dedotto dall’informazione. Le città sono specchi delle complesse realtà
«POSSIAMO PARAGONARE LA CITTË ALLA MENTE: PORTIAMO CON NOI STRATI E STRATI DI TEMPO INVISIBILE»
storiche che hanno contribuito alla loro creazione. Produttrici e consumatrici di nuove idee, le città sembrano avere un ordine storico e allo stesso tempo sono vittime di un caos imprevedibile. Il celebre architetto Dedalo era famoso per due grandi realizzazioni: era contemporaneamente l’inventore del labirinto di Creta e il costruttore delle ali che portarono suo figlio Icaro disastrosamente troppo vicino al sole. Le città sembrano oscillare tra questi due archetipi: sono o labirinti il cui centro è inaccessibile o generano fantasie utopiche».
Quali sono i suoi lavori che secondo lei hanno gettato i semi per il futuro?
«Niente avrebbe significato se non avesse i semi del futuro. Nessun lavoro va verso il passato, l’unica ragione di guardare indietro è quella di rendere il domani più brillante e più responsabile. Un’opera senza una visione futura non è un’opera».
Come immagina il domani?
«Può essere fantastico perché abbiamo davvero tante nuove possibilità tecnologiche, ma, d’altra parte, siamo anche minacciati dall’intelligenza artificiale e dal “pensiero” robotico, che mina l’elemento umano e spirituale. Quindi, la nostra responsabilità per il futuro non è solo
«NON DOBBIAMO SOLO GUIDARE LA TECNOLOGIA, MA GARANTIRE CHE LO SPIRITO UMANO PREVALGA SULLA MACCHINA»
guidare la tecnologia, ma garantire che lo spirito umano prevalga sulla macchina».
Se lei dovesse indicare un’opera d’arte antica, che per lei è stata d’ispirazione, quale indicherebbe?
«Le grotte di Lascaux: centinaia di migliaia di anni fa le persone hanno impresso le loro mani sui muri delle grotte sotterranee, dicendo: “Siamo qui, non dimenticateci”».
Chi è stato il suo maestro, a chi deve quello che sa?
«In generale sono molto grato ai maestri dell’architettura del passato. Io ho avuto insegnanti fondamentali come John Hejduk, Peter Eisenman e altre personalità illustri. Imparare dai maestri del passato non significa solo andare a visitare l’architettura nei vari luoghi, ma vuol dire anche leggere i testi e studiare i disegni creati da Guarino Guarini, Leon Battista Alberti, Francesco Borromini e così via: sono loro i veri insegnanti dell’architettura».
Quando lei fa i progetti, pensa soprattutto al passato, presente o al futuro?
«Né al presente né al futuro e nemmeno al passato. Quando sono immerso in un progetto, sono assorbito dalla meraviglia della creazione. Un progetto non è solo un’imitazione o una ripetizione, è una vera creazione dal nulla. Alla fine, se è un buon lavoro, toccherà tutto l’arco del tempo: ieri, oggi e domani».
Una cosa che secondo lei i giovani devono ripescare dal passato e che è importante non perdere?
«È importante che i giovani siano consapevoli delle ideologie che li circondano e riescano a penetrarle per vedere il meraviglioso mondo che li circonda».
Quando ero molto giovane Alessandro Mendini mi disse: «Senza la conoscenza del proprio passato è impossibile progettare il proprio futuro». Ho sempre avuto queste parole davanti a me, e gli incontri con gli autori che hanno lavorato per la mia azienda, la’ lessi, sono stati come delle pietre miliari. Da ognuno di loro ho preso qualcosa di importante: vuoi sul piano personale, sulla cultura del progetto e talvolta anche sulla vita in generale. In qualche modo sono stato formato da quegli incontri, ed è naturale che questi accadimenti si riflettano oggi nel mio pensiero e nella mia attività.
Cominciamo da Dalí
Quando giovanissimo l’ho incontrato nella sua casa di Cadaqués, in Spagna, e ho visto il prototipo che aveva fatto del suo multiplo Obget inutile per Alessi, la mia prima sensazione è stata di scoramento: una grande lamiera di acciaio ripiegata su se stessa e fissata da una molletta per i panni, con in mezzo un grande pettine ai cui denti erano saldati degli enormi ami per la pesca al salmone! Solo molto più tardi ho compreso che la sua era la metafora surrealista di un’industria di casalinghi come la Alessi, che voleva trasformare una semplice lamiera in un’opera d’arte, e questa è stata la mia missione per tutta la mia vita professionale.
E su Ettore Sottsass...
Ettore è stato il primo dei vecchi maestri con i quali ho avuto la fortuna di lavorare negli anni ’70. Ero un ragazzo, e a un certo punto mi ammonì con delle parole che mi hanno poi sempre guidato: «Ricordati che la vostra attività di industriali non è soltanto di natura commerciale: voi immettete nel mondo ogni anno migliaia di oggetti, di cose, voi avete anche una profonda responsabilità culturale, voi contribuite a dare forma al nostro mondo».
C’è stato anche Bob Venturi
Complessità e contraddizione erano intorno a me, e immaginate la sorpresa quando ho letto Complexity and Contradiction in Architecture, il libro di Robert Venturi: «Amo la complessità e la contraddizione in architettura. Non amo l’incoerenza e l’arbitrarietà dell’architettura incompetente, né i complicati preziosismi del pittoresco o dell’espressionismo. (…) Mi riferisco invece a una architettura più complessa e contraddittoria basata sulla ricchezza e sull’ambiguità dell’esperienza moderna, compresa quel tipo di esperienza inerente all’arte. (…) Io sono per la ricchezza del significato, piuttosto che per la chiarezza del significato; per la funzione implicita piuttosto che per la funzione esplicita; preferisco “e-e’’ a “o-o”: preferisco “bianco e nero”, e a volte grigio, a “bianco o nero”. (…) Un’architettura basata sulla complessità deve perseguire la difficile unità dell’inclusione, piuttosto che la facile unità dell’esclusione. Less is a bore / il meno è una noia - More is not less / il più non è di meno».
E poi Aldo Rossi
Ricordo l’emozione di questo grande architetto, autore di alcune delle opere più emozionanti della sua epoca, quando per la prima volta abbiamo messo sul fuoco della cucina il prototipo della sua caffettiera La Conica: era sorpreso e felice come un bambino di fronte a un gioco nuovo. Bene, proprio questa attenzione e cura per i piccoli dettagli degli oggetti, questa «casalinghitudine» della loro dimensione intima quotidiana mi hanno accompagnato lungo la mia strada.