I risvolti internazionali
DEL DIALOGO CINA-USA
Tutto l’incontro a San Francisco tra Joe Biden e Xi Jinping del 15 novembre doveva evocare una certa nostalgia per la Guerra fredda: bei tempi quelli in cui due grandi potenze atomiche si spartivano il mondo e bastava una telefonata tra i due leader per ridurre la tensione, o farla salire, a seconda delle esigenze. Certo, era un equilibrio che si reggeva sulla possibilità della «reciproca distruzione» assicurata dalle armi atomiche, ma il rischio teorico dell’apocalisse inizia a sembrare meno concreto dell’esperienza quotidiana del caos, dall’ucraina a Gaza.
Biden e Xi Jinping hanno i loro problemi domestici, il presidente americano in cerca di una difficile rielezione nel 2024, il capo del Partito comunista cinese ha un mandato potenzialmente a vita ma questo non basta a sostenere l’economia cinese minacciata dalla bolla immobiliare e dalla disoccupazione giovanile. E allora il vertice è servito a rassicurare le rispettive opinioni pubbliche e gli osservatori internazionali: la guida della globalizzazione ormai è condivisa, è tutto sotto controllo.
In realtà il mondo è ormai pieno di potenze non allineate – dall’india al Brasile, all’indonesia – che considerano cruciale per la loro sovranità avere possibilità di scelta, cioè non avere l’obbligo di allinearsi con Pechino o con Washington ma poter decidere in base ai singoli dossier. La Cina farà un favore agli Stati Uniti e limiterà le esportazioni di sostanze chimiche che servono ai cartelli della droga messicani per ammazzare gli americani con l’oppiaceo illegale fentanyl. E Washington riduce la pressione economica e politica sulla Cina, che in questi mesi è diventata rilevante, soprattutto con i limiti all’esportazione di chip e tecnologia. Certo, Biden è caduto nella trappola di un giornalista, ha confermato che Xi è «un dittatore», sia pure con mille precisazioni, dittatore nel senso di capo di un Paese non democratico, e così via. I media cinesi non hanno fiatato: questo è il momento della tregua, soprattutto con le elezioni presidenziali a Taiwan a gennaio 2024. Il paradosso è che mentre Biden conduce una campagna per la riconferma con toni morbidi verso la Cina, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen fa l’opposto: due giorni dopo il vertice Biden-xi Jinping, ha presentato le sue idee su Pechino, molto più ostili che in passato. In sintesi: cooperazione dove serve, come sul clima, ma fermezza su tutto il resto, a cominciare dalle ritorsioni commerciali per bilanciare i sussidi cinesi a settori come auto elettriche e acciaio che finiscono per togliere mercato alle aziende europee. Con una di quelle formule che sembrano sensate soltanto a Bruxelles, von der Leyen ha parlato di una «rivalità che può essere costruttiva».
Ma se gli Stati Uniti hanno parecchi argomenti – tecnologici e militari – per impostare un dialogo su un piano di parità, l’unione europea è soprattutto un mercato dipendente dalle importazioni dalla Cina, mentre l’export europeo nell’altro senso è stagnante (il deficit commerciale bilaterale nel 2022 è arrivato a 396 miliardi).