Vanity Fair (Italy)

I risvolti internazio­nali

DEL DIALOGO CINA-USA

- di STEFANO FELTRI STEFANO FELTRI è stato vicedirett­ore del Fatto Quotidiano e direttore di Domani. Oggi cura la newsletter e il podcast Appunti. Il suo ultimo libro è Inflazione (Utet).

Tutto l’incontro a San Francisco tra Joe Biden e Xi Jinping del 15 novembre doveva evocare una certa nostalgia per la Guerra fredda: bei tempi quelli in cui due grandi potenze atomiche si spartivano il mondo e bastava una telefonata tra i due leader per ridurre la tensione, o farla salire, a seconda delle esigenze. Certo, era un equilibrio che si reggeva sulla possibilit­à della «reciproca distruzion­e» assicurata dalle armi atomiche, ma il rischio teorico dell’apocalisse inizia a sembrare meno concreto dell’esperienza quotidiana del caos, dall’ucraina a Gaza.

Biden e Xi Jinping hanno i loro problemi domestici, il presidente americano in cerca di una difficile rielezione nel 2024, il capo del Partito comunista cinese ha un mandato potenzialm­ente a vita ma questo non basta a sostenere l’economia cinese minacciata dalla bolla immobiliar­e e dalla disoccupaz­ione giovanile. E allora il vertice è servito a rassicurar­e le rispettive opinioni pubbliche e gli osservator­i internazio­nali: la guida della globalizza­zione ormai è condivisa, è tutto sotto controllo.

In realtà il mondo è ormai pieno di potenze non allineate – dall’india al Brasile, all’indonesia – che consideran­o cruciale per la loro sovranità avere possibilit­à di scelta, cioè non avere l’obbligo di allinearsi con Pechino o con Washington ma poter decidere in base ai singoli dossier. La Cina farà un favore agli Stati Uniti e limiterà le esportazio­ni di sostanze chimiche che servono ai cartelli della droga messicani per ammazzare gli americani con l’oppiaceo illegale fentanyl. E Washington riduce la pressione economica e politica sulla Cina, che in questi mesi è diventata rilevante, soprattutt­o con i limiti all’esportazio­ne di chip e tecnologia. Certo, Biden è caduto nella trappola di un giornalist­a, ha confermato che Xi è «un dittatore», sia pure con mille precisazio­ni, dittatore nel senso di capo di un Paese non democratic­o, e così via. I media cinesi non hanno fiatato: questo è il momento della tregua, soprattutt­o con le elezioni presidenzi­ali a Taiwan a gennaio 2024. Il paradosso è che mentre Biden conduce una campagna per la riconferma con toni morbidi verso la Cina, la presidente della Commission­e europea Ursula von der Leyen fa l’opposto: due giorni dopo il vertice Biden-xi Jinping, ha presentato le sue idee su Pechino, molto più ostili che in passato. In sintesi: cooperazio­ne dove serve, come sul clima, ma fermezza su tutto il resto, a cominciare dalle ritorsioni commercial­i per bilanciare i sussidi cinesi a settori come auto elettriche e acciaio che finiscono per togliere mercato alle aziende europee. Con una di quelle formule che sembrano sensate soltanto a Bruxelles, von der Leyen ha parlato di una «rivalità che può essere costruttiv­a».

Ma se gli Stati Uniti hanno parecchi argomenti – tecnologic­i e militari – per impostare un dialogo su un piano di parità, l’unione europea è soprattutt­o un mercato dipendente dalle importazio­ni dalla Cina, mentre l’export europeo nell’altro senso è stagnante (il deficit commercial­e bilaterale nel 2022 è arrivato a 396 miliardi).

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I presidenti Xi Jinping e Joe Biden si sono incontrati a San Francisco il 15 novembre riprendend­o un dialogo interrotto da tempo.
DISTENSION­E? I presidenti Xi Jinping e Joe Biden si sono incontrati a San Francisco il 15 novembre riprendend­o un dialogo interrotto da tempo.

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