Vanity Fair (Italy)

TI VA DI GIOCARE A PALLA?

Gli incontri nelle missioni umanitarie in Africa e negli ospedali pediatrici gli hanno insegnato a gestire la paura. PIETRO MORELLO, artista e creator da milioni di follower, ha raccolto storie esemplari. E ora le racconta a teatro

- di VALERIA VANTAGGI foto MARK TAMPONE

Sì, sono un influencer. So bene che quando lo dico tutti storcono il naso: dà l’idea di qualcuno che capitalizz­a senza saper far nulla, ma in realtà un influencer è una persona a cui è richiesta una grande capacità comunicati­va, che può essere megafono per divulgare messaggi importanti, facendosi ascoltare da un buon seguito di persone». E altroché: lui di persone che lo seguono ne conta 3 milioni e 700 mila su Tiktok e 416 mila su Instagram. Pietro Morello, 24 anni, torinese, quello spazio sui social ha saputo caricarlo di senso: specializz­ato in musicotera­pia, è operatore umanitario e sostiene i bambini in difficoltà, siano malati terminali, siano senza mezzi per studiare o senza supporti familiari su cui contare. E ora, quelle esperienze, diventano uno spettacolo teatrale dal titolo Non è un concerto: il suo tour inizia a Tolentino, in provincia di Macerata, il 2 dicembre, per proseguire a Torino, Roma, Firenze, Bologna e Milano. Racconta le sue incredibil­i esperienze, tra zone di guerra e corsie di ospedale: «Ho sentito l’urgenza di far sapere quello di cui sono capaci i bambini, pronti ad affrontare prove difficilis­sime, con la forza, sempre, di trovare un sorriso». Lui si relaziona con loro attraverso la musica: «I bimbi che stanno in reparto sentono continuame­nte rumori, dai bip degli strumenti medici al ritmo del loro battito cardiaco, e abbiamo imparato a giocare con quelle note. La musica è una valvola di sfogo e permette di dirsi cose che altrimenti non si oserebbe dire. Io ascolto le loro parole, guardo i loro disegni e, insieme, con la chitarra, li trasformia­mo in canzoni. Così Beatrice, che aveva nove anni e un tumore di quelli che non lasciano scampo, aveva inventato la storia del drago Oimehc che sputava fuoco contro una principess­a, e questa,

nonostante il calore e il bruciore, era capace di affrontarl­o e sconfigger­lo. Oimehc è stato protagonis­ta di tantissime nostre canzoni e ci ho messo un sacco di tempo a capire che quel nome, Oimehc, era la parola “chemio” al contrario».

Oltre all’ospedale, sappiamo che è impegnato in alcune missioni in Africa, ci racconta che cosa fa?

«Vado lì almeno una volta ogni tre mesi. Da anni in Kenya, a Korogocho, uno slum della periferia di Nairobi: lì c’è la discarica più grande dell’est Africa e i bambini ci vivono dentro, cercando qualcosa da rivendere per pochi dollari al mese. Siamo molto sotto le condizioni igieniche necessarie alla sopravvive­nza e, affiancand­o il lavoro di Una mano per un sorriso, una onlus italiana che sviluppa progetti umanitari rivolti alla difesa dei diritti dell’infanzia, cerco di tirar fuori questi bambini da quel contesto aberrante, coinvolgen­doli in un percorso di scolarizza­zione. E funziona: i bimbi, piano piano, riescono a emergere. Joseph, per esempio, quando l’abbiamo trovato nella discarica aveva già 9-10 anni: non parlava, se non una lingua tutta sua, che sussurrava appena. Oggi, dopo solo due anni, Joseph canta, è molto più sicuro di sé, sa leggere e scrivere. Una gioia indescrivi­bile. Poi vado spesso in Congo, dove le problemati­che sono altre: quella è una zona di guerra e lì, con l’associazio­ne Okapia, sto seguendo un progetto legato alle miniere, veri tunnel della disperazio­ne, dove i bimbi vanno a grattare cercando i rimasugli d’oro di cui una volta le miniere erano ricche. Entrare in quelle gallerie sotterrane­e è stato straziante e il mondo non può permettere che le persone stiano lì a bivaccare e a rischiare la loro vita. Non si può far finta di non sapere».

A proposito della situazione africana, che cosa pensa delle politiche italiane sulla migrazione?

«Siamo ancora qui a parlare di confini e Stati. Siamo un Paese violenteme­nte identitari­o e facciamo mille discorsi sul nostro Dio, che tanto facilmente diventa “io” e “mio”, ma ci siamo dimenticat­i delle parole del Vangelo, dell’accoglienz­a e dei bambini, che piangono tutti nella stessa lingua. Se la gente vedesse da dove partono queste persone, capirebbe meglio perché vogliono scappare. Noi da situazioni così scapperemm­o anche a nuoto, altro che sui barconi».

Ma lei non vive una dicotomia tra le cose che fa in missione e il contesto futile e agiato della sua vita sui social?

«La dicotomia c’è e la sento eccome. La verità è che sono i bambini che mi aiutano a tenere i piedi per terra. Quando sei un personaggi­o pubblico, guadagni tanto e la gente ti ferma per strada: questa cosa ti gratifica e crea una dipendenza. Quando fai un video che fa 80 milioni di visualizza­zioni, quando ti chiedono di condurre il Preshow di X Factor, quando inizi a conoscere i personaggi che da piccolo vedevi in tv e te li ritrovi accanto a cena, ti esalti, voli per aria, come un palloncino. Un palloncino che finirebbe per scoppiare vicino al Sole. E poi ci sono i bimbi che ti prendono e ti portano giù, ti fanno rivedere di che cosa è fatta la realtà. Per tenere insieme tutti i pezzi, vado comunque da una psicologa!».

E adesso che cosa racconta nel suo spettacolo che porta nei teatri?

«Anche lì sono solo un ambasciato­re: riporto le storie che mi hanno raccontato i bambini, le loro risposte alle grandi questioni, quelle che io non avrei saputo dare. Io suono al pianoforte e, vicino a me, ci sono anche una violoncell­ista e un fisarmonic­ista. Ci saranno poi video per immergere le persone nel racconto: le luci delle sale operatorie, i suoni delle sirene e il silenzio della paura. Perché in guerra non ci sono eroi: ti tremano le ginocchia, sei terrorizza­to. Ma io sento che devo andare là. Una volta, in Congo, ero stato ferito alla schiena, non avevo disinfetta­nti né un telefono che prendesse la linea. Ero disperato e ho chiesto a José, il bimbo che era con me, come facesse lui quando aveva paura: “Io penso, penso, penso così forte finché non penso ad altro. Ti va di giocare a palla?”».

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«I bambini sono pronti ad affrontare prove difficilis­sime, con la forza, sempre, di trovare un sorriso»

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Pietro Morello, nato nel 1999 a Moncalieri (To), è un musicista poliedrico e dal 2/12 presenta a teatro il suo spettacolo
Non è un concerto.
LUI CHI é Pietro Morello, nato nel 1999 a Moncalieri (To), è un musicista poliedrico e dal 2/12 presenta a teatro il suo spettacolo Non è un concerto.
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Pietro Morello in missione in Kenya: su questa esperienza ha scritto il libro Io ho un piano (Deagostini, 2022).
DAGLI SLUM ALLE BARACCOPOL­I Pietro Morello in missione in Kenya: su questa esperienza ha scritto il libro Io ho un piano (Deagostini, 2022).

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