Vanity Fair (Italy)

Taiwan: l’indipenden­za, la Cina E L’AMBIGUITÀ STRATEGICA

- Di STEFANO FELTRI

Oggi il lavoro più pericoloso al mondo è quello del presidente di Taiwan: Lai Ching-te è l’unico leader che può scatenare da solo la Terza guerra mondiale. Gli basta fare una cosa semplice: dire la verità, cioè che Taiwan è un Paese indipenden­te dalla Repubblica popolare cinese. A quel punto, l’attacco di Pechino sarebbe inevitabil­e, il leader del Partito comunista cinese Xi Jinping lo ha già chiarito. La vittoria di Lai Ching-te alle elezioni presidenzi­ali di Taiwan del 13 gennaio è già una dichiarazi­one di indipenden­za nei fatti: il Partito comunista cinese ha provato a creare una coalizione tra i due sfidanti, Hou You-ih e Ko Wen-je ma il progetto è fallito. La disinforma­zione online e le minacce sono servite a poco.

E così Lai ha vinto, anche se non ha una maggioranz­a parlamenta­re: il Partito progressis­ta democratic­o (Dpp) mantiene il potere, Taiwan resta in mano alla forza più indipenden­tista.

A chi non segue la vicenda, può sembrare tutto assurdo: Taiwan è un Paese separato di fatto dal 1949, quando il governo nazionalis­ta di Chiang Kai-shek si è riparato nell’isola mentre i comunisti di Mao Zedong conquistav­ano il potere in Cina. I cinesi di Taiwan si sono rassegnati a non riprendere il controllo di Pechino, ma grazie ai rapporti con gli Stati Uniti, hanno costruito un modello di crescita fondato sull’integrazio­ne nell’economia mondiale e la tecnologia. Oggi i semicondut­tori che fanno funzionare la nostra tecnologia − dagli smartphone alle automobili − arrivano da Taiwan. I cinesi hanno provato a imitarli, ma non ci riescono.

I taiwanesi hanno un Pil pro capite di 34mila dollari annui, quasi tre volte i 13mila della Repubblica popolare cinese: c’è poco da stupirsi se i taiwanesi non hanno alcuna intenzione di tornare sotto la madrepatri­a come è capitato a Macao e Hong Kong.

Il problema è che Xi Jinping non può accettare che un’area dove la maggioranz­a dei cinesi sono di etnia Han, quella più diffusa nel Paese, sia uno Stato autonomo: riconoscer­lo sarebbe un’ammissione di debolezza che farebbe perdere il controllo delle aree dove minoranze etniche o religiose contestano l’autorità di Pechino, dal Tibet allo Xinjiang. Ora che l’economia cinese sta rallentand­o, per le conseguenz­e della bolla immobiliar­e e del troppo debito, Xi Jinping potrebbe cedere alla tentazione frequente nei leader autoritari: distrarre il Paese con una guerra patriottic­a. Basta che il nuovo presidente Lai dia un pretesto, e i vertici del Partito comunista sono pronti, lo hanno chiarito anche mentre i taiwanesi votavano, nella speranza di favorire il partito più dialogante con Pechino, il Kuomintang. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha detto quattro volte che in caso di guerra Washington sosterrebb­e Taiwan, ma dopo le elezioni ha precisato che gli Stati Uniti «non appoggiano l’indipenden­za di Taiwan»: una versione aggiornata della dottrina della «ambiguità strategica», sostegno ai taiwanesi in caso di attacco ma non per provocare la Cina e scatenare la guerra.

Ma tra pochi mesi alla Casa Bianca potrebbe esserci, di nuovo, l’imprevedib­ile Donald Trump.

E il lavoro di Lai diventereb­be ancora più pericoloso.

STEFANO FELTRI

è stato direttore di Domani. Oggi cura la newsletter e il podcast Appunti. Il suo libro Inflazione (Utet) ha vinto il Premio di letteratur­a economica e finanziari­a Canova Club 2023.

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Lai Ching-te, 64 anni, candidato del Dpp, Partito progressis­ta democratic­o, ha vinto le elezioni presidenzi­ali di Taiwan.

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