Sono tornata A CASA
Con il nuovo romanzo, Marabbecca, Viola Di Grado si riappropria della sua Sicilia, da cui aveva preso le distanze molto tempo fa
Spesso è da lontano che si riesce a vedere con chiarezza. Viola Di Grado, classe 1987, è arrivata fino in Nuova Zelanda per riuscire a guardare di nuovo quella Catania dalla quale era fuggita a 17 anni. Marabbecca (La nave di Teseo, pagg. 208, € 19), che è il suo sesto romanzo, 13 anni dopo l’esordio fulminante con Settanta acrilico trenta lana, è anche il suo libro più siciliano, un south gothic dalla scrittura «etnea» – un po’ incandescenza magmatica, un po’ paesaggi siderali – e con echi alla Angela Carter, che in certi punti inquieta perché «è proprio la natura umana a fare paura. Non mi interessano le vie di mezzo, ma esplorare fino a dove può arrivare».
Marabbecca – la cui copertina è stata realizzata grazie al generatore di immagini AI Midjourney, e fa parte del progetto «The Dream and the Underworld» dove la scrittrice fa incontrare il proprio inconscio con l’inconscio collettivo – è la storia di un inconsueto ménage à trois che si viene a instaurare dopo che Clotilde e Igor, incastrati in un rapporto violento (a essere violento è lui), hanno un incidente: Igor finisce in coma e Clotilde inizia una relazione con l’ambigua Angelica. A fare paura, però, è quello che succede dopo, quando lui si sveglia e i ruoli si ribaltano.
Che cosa faceva in Nuova Zelanda?
«Ero lì per un festival e stavo visitando un’isola vulcanica, meravigliandomi di fronte a quel paesaggio nero e bellissimo, quando mi ha colpito un pensiero: vengo anch’io da un’isola vulcanica! Negli anni avevo messo la Sicilia in una parte inaccessibile della mia mente, perché la odiavo: avevo vissuto brutte esperienze, respirato tanta violenza umana e un incredibile conformismo. Così me ne ero andata via, prima Torino, poi Leeds, Cina, Giappone e altri centomila posti. I miei libri hanno sempre rispecchiato questa mia folle necessità di spostarmi in cerca di nuovi mondi. Poi, come se avessi fatto un giro completo, eccomi di nuovo lì ed è incominciato il mio percorso di riappropriazione dell’isola da adulta».
Perché questo titolo?
«La Marabbecca è un personaggio del folclore siciliano unico nel suo genere: è il buio stesso incarnato. Rappresenta quello che sta nel nostro inconscio ed era perfetto per un libro che è un’indagine sul male, non solo quello di Igor, ma un male “sparso”, perché tutti i personaggi fanno delle cose cattive».
In questo momento si parla molto di femminicidi.
«Non credo nel mito dello scrittore che prende le cose da dentro: lo scrittore deve essere una specie di diapason, fare risuonare ciò che respira intorno a sé».
Perché Clotilde fatica tanto a staccarsi dal suo persecutore?
«Se chi subisce violenza ha delle fragilità, può capitare che il suo persecutore esterno diventi complice di quello interno. Distaccarsene è difficile, perché ne ha paura e perché, in fondo, prevale il pensiero di meritarsela, quella violenza».
Continua a viaggiare tanto?
«Dopo la pandemia è tutto cambiato. Mi ero sempre spostata in modo incessante, il che è vitale ma faticoso. Ora non sento più quella voglia sfrenata, per questo tre anni fa sono tornata a Londra, l’unico posto in cui posso pensare di fermarmi senza impazzire. Qui faccio una vita molto solitaria, la maggior parte del tempo lo passo con il mio gatto Archie o a vedere mostre. Ma proprio perché è un luogo pieno di tante realtà, mi dà l’illusione di continuare a viaggiare».