La NOSTRA NOTTE degli Oscar
Ieri sera sono stato gentilmente invitato a quella che Alberto Arbasino avrebbe chiamato «una serata memorabile», e proprio come avviene in tutte le serate memorabili qualcuno mi ha invitato ad andare a St. Moritz. Senza battere ciglio ho risposto con un netto rifiuto, dicendo che non mi sarei mai sognato di abbandonare Milano e il mio amato schermo televisivo per guardare Sanremo. Allora la gentile amica mi ha risposto: «E perché mai, non si può forse guardare Sanremo anche a St. Moritz?». Al che ho prontamente risposto che sicuramente i gruppi d’ascolto della montagna non avrebbero avuto il rispetto necessario per la mia competizione canora preferita. Ovvero: dopo 40 anni che subisco il patriarcato durante la partite di calcio quando non mi è concesso aprire bocca, ora esigo religioso silenzio quando Angelina Mango canterà La rondine, e io sarò pronto a sognare.
Il Festival di Sanremo non è mai stato così bello come quello degli ultimi cinque anni. E per bello intendo aperto, all’avanguardia, specchio del Paese.
Riavvolgiamo il nastro: la prima edizione del 1951 prevedeva solo tre cantanti – Achille Togliani, il Duo Fasano e Nilla Pizzi –, che si alternavano a interpretare 20 brani. L’anno dopo, Pizzi si classificava prima, seconda e terza con Vola colomba, Papaveri e papere e Una donna prega. Le canzoni avevano grande successo, ma il Festival rimaneva una manifestazione dalla struttura statica, rigida, impermeabile ai cambiamenti in atto nella società.
Durante gli anni Sessanta, l’italia del boom economico e il Festival dei fiori e della musica leggerissima riescono per un po’ a camminare mano nella mano, ma quando il Paese entra nella fase più complessa delle manifestazioni studentesche prima e degli anni di piombo poi, Sanremo non riesce più a stare al passo con la nazione e perde attenzione mediatica: dal 1973, la Rai decide addirittura di trasmettere solo la serata finale.
Per assistere a una lenta rinascita bisogna arrivare agli anni Ottanta, quando l’economia italiana registra una ripresa e anche Sanremo ricomincia a funzionare, pur sempre con un limite: a parte qualche «refuso» – come il bacio di Roberto Benigni a Olimpia Carlisi per rivendicare l’amore libero nel 1980 o il pancione posticcio di Loredana Bertè nel 1986 – il Festival non mette in scena alcuna forma di modernità. Sebbene gli anni Ottanta evochino in molti nostalgia, e le canzoni di quel decennio siano entrate nell’immaginario collettivo, il Festival rimane uno specchio «democristiano» della politica italiana, dove non c’è spazio per l’avanguardia.
Lo confermano anche le scenografie: legnose, con tanti fiori, ricordano i «mobili in stile», la valletta bionda e la valletta mora, il richiamo a un immaginario reazionario nel quale un adolescente non avrebbe mai potuto riconoscersi. Anche i miei genitori, che all’epoca ascoltavano Dalla e De Gregori, non si sarebbero mai sognati di guardare Sanremo, perché era lo specchio di un’italia che non corrispondeva loro, né musicalmente né culturalmente.
Io, invece, l’ho sempre guardato sin da bambino. I miei partner in crime erano le mie nonne e le zie, le radunavo tutte davanti alla tv e chiedevo loro di votare le canzoni. Tra i ricordi di quegli anni, due, in particolare, mi
«È stata LA MODA ad arricchire il Festival di un forte elemento di contemporaneità, trasportandoci in mondi-rifugio IMMAGINARI»
sono rimasti scolpiti nella mente, stranamente entrambi legati alla moda di Versace. Nel 1984, Patty Pravo canta Per una bambola avvolta in un abito che ricorda una maglia di metallo e, nel 1989, Ornella Vanoni in gara con Io come farò, elegantissima, in abito lungo rosso e una giacca corta plissé soleil. Forse sono i ricordi più forti perché legati a due artiste iconiche e portatrici di una modernità estetica: quello che sul palco non arrivava in termini di design, veniva veicolato in scena dalla moda.
Negli anni, è stata la moda ad arricchire il Festival di un forte elemento di contemporaneità: Sanremo si è modernizzato da quando si è legato al linguaggio dello stile. Pensiamo per esempio a Elodie: magari in alcune parti del mondo non sanno chi sia, eppure la sua immagine è così sofisticata da risultare globale. Nel 2020 ha stupito tutti in una sinfonia di look Versace che sarebbe plausibile per un Golden Globe. In aggiunta al talento, la sua fisicità e l’abito hanno un aesthetic value pari a quello dei red carpet internazionali. Ecco perché oggi il Festival è per gli italiani l’equivalente della cerimonia degli Oscar. Ci tiene incollati e ci fa sognare, come la moda, ci trasporta in mondi-rifugio immaginari.
La moda è un sistema fortissimo: non a caso la holding del lusso Artémis ha acquisito una partecipazione di maggioranza della CAA, l’agenzia di molte star del cinema. E, a ben vedere, oggi uno dei pochi film «sognanti» è Povere creature! di Yorgos Lanthimos, che è un regista europeo, mentre Hollywood non fabbrica sogni ma Barbie, rilettura contemporanea che però non ha un immaginario dirompente al pari di un 2001: Odissea nello spazio, per intenderci. E a Barbie è andato – non a caso – il premio della nuova categoria istituita dai Golden Globe, quello al film che ha incassato di più. Tutti volevano che fosse il film più bello, ma non è andata così: ha vinto il premio «cassa».
A Sanremo, invece, si gareggia, come fra i gladiatori. Non esiste al mondo un contest dove artisti così importanti all’interno del loro star system siano in gara gli uni con gli altri. Il Festival è un unicum, «un’anomalia», è la sfida di Amadeus, che in maniera molto smart ha ripetuto in tutte le interviste: «I super ospiti sono in concorso!». E lo ha ripetuto perché questa frase è una chiave dell’unicità del suo progetto nel linguaggio dell’entertainment. Amadeus, come Fiorello, arriva dalla cultura della radio e del Festivalbar, lo spettacolo dove l’ascoltato e il glamour si univano facendo share vertiginosi. Al Festivalbar venivano premiate le canzoni più ascoltate in radio e nei juke-box, era un Sanremo al quale ai tempi era stata tolta la polvere. Amadeus ha trasferito questa cultura con grande lucidità, mettendo dentro il suo Festival le canzoni che saranno ascoltate, che verrebbero ascoltate nei juke-box se esistessero ancora, e che invece esistono solo nei bar di Wes Anderson. Ecco perché il Festival di Sanremo non è mai stato così bello. Perché c’è una quota per tutti, per qualunque pubblico voglia ascoltare e comprare musica.
Eppure qualcosa ancora manca, una nuova categoria di premio, e ancora una volta chiamo in causa la moda. Perché Sanremo è l’unico show che non ha bisogno del red carpet. Osservazione forse banale ma importante: agli Oscar vediamo gli abiti solo sul red carpet, mentre all’ariston ogni cantante ha decine di minuti per il suo défilé. Il sistema dell’immaginario della moda si impegna su Sanremo, e fa pensare che, probabilmente, quel vestito
che vedremo addosso a un cantante sul palco viaggerà nel mondo, e magari una star di Hollywood ne indosserà uno simile durante la notte degli Oscar. Anzi, questo corto circuito è già avvenuto nel 1993, quando Lorella Cuccarini (conduttrice, come quest’anno) indossò un Valentino, che poi qualche anno dopo incorniciò la vittoria di Julia Roberts agli Oscar.
Pertanto, per rendere meno ingessata la serata dell’academy propongo di istituire il televoto agli Oscar, che ci liberi dalla ceralacca e dalle buste e specialmente ci eviti ridicoli errori come nel 2017. Ecco un altro ottimo motivo per non andare a St. Moritz. Dalla Svizzera non si può fare il televoto.