Il mio giallo NERISSIMO
Premiato come miglior titolo dell’anno dai librai norvegesi, La mia Ingeborg di Tore Renberg è un’oscura saga familiare
Certi romanzi nascondono un magnete, per questo è quasi impossibile staccarsene prima di averli finiti. È così per
La mia Ingeborg, un thriller nerissimo, la cui oscurità coincide con il protagonista Tollak, un vecchio che vive rintanato nella sua fattoria covando un terribile segreto, nutrendosi di passato – quando la «sua» Ingeborg non era ancora scomparsa – e di furia nei confronti di un presente al quale non appartiene. «Perché tutti vogliono portarmi via il mio mondo?», è il suo refrain. Insieme a lui è rimasto soltanto Oddo, per il villaggio «Oddoloscemo», di cui si prende cura dopo che anche i figli l’hanno abbandonato. L’autore è Tore Renberg, 51 anni (il 2 marzo alle 15.15 è al festival i Boreali, al Teatro Franco Parenti di Milano), originario di Stavanger, la «Dubai della Norvegia», il più importante centro petrolifero del Paese: «Grazie al petrolio siamo diventati ricchissimi, ma ora con la crisi climatica ci sentiamo in colpa, come se ci vergognassimo della provenienza di questa ricchezza».
Come nasce un personaggio così inquietante?
«Ero in treno. All’improvviso ho sentito una voce maschile piena di rabbia e ho iniziato ad annotare quello che diceva, cose come: “Picchiami, tanto ormai non mi interessa più nulla”. L’ho chiamata
Tollak, un nome che si usava in campagna e che significa “lotta”».
Maschio, anziano, infuriato con il mondo: è il ritratto del patriarcato.
«Mentre scrivevo, pensavo: ecco una figura archetipica che conosciamo molto bene perché è ovunque. Si chiama Donald Trump, Putin, “tuo nonno”. Tollak è il prodotto della vecchia identità maschile patriarcale, un uomo che ha divorziato dalla società, che non vuole prendere parte a nessun tipo di progresso e che, per questo, è pieno di odio. Credo che sia sempre stato così, mi dispiace dirlo, soprattutto tra gli uomini. La mia intenzione, però, non era giudicare le persone che sono state educate in quel modo, quanto piuttosto farne un ritratto, contestualizzare i loro atteggiamenti».
Lei è amico di Karl Ove Knausgård, famoso per la serie di libri autobiografici La mia lotta. Avete anche suonato nella stessa band.
«Vero, io facevo il frontman, lui suonava la batteria. Ci siamo conosciuti all’università: ero giovane e l’unica cosa che volevo era scrivere. Conoscere lui è stato come trovare un’altra persona esattamente come me. Così abbiamo iniziato a scambiarci quello che scrivevamo, cosa che abbiamo continuato a fare per anni. Una volta, era il ’97, Knausgård mi scrisse una lettera in cui mi diceva che, non sapendo cosa altro scrivere, aveva iniziato un diario molto noioso su quello che gli succedeva, e che voleva intitolarlo Min kamp, la mia lotta. Lo incoraggiai: “Devi farlo! Diventerai una star mondiale!”. Beh, ci avevo visto bene».