Un uomo ALL’ANTICA
Cosmo Jarvis non perde il vizio dei drammi storici. L’ultimo s’intitola Shogun ed è ambientato nel 1600
Chi ama i drammi d’epoca lo riconoscerà subito: Cosmo Jarvis ha partecipato, negli ultimi anni, a film in costume di ispirazione letteraria quali Lady Macbeth e Persuasione.
È stato anche nella serie Peaky Blinders, come i precedenti ambientata nel XIX secolo.
Per Shogun, period monumentale anglo-americano ambientato nel Giappone feudale, si trasferisce nel 1600, nei panni dell’inquieto marinaio inglese John Blackthorne, che entra in contatto con la filosofia orientale e si lascia coinvolgere nelle faide tra signori locali. Jarvis ha un passato da musicista – prima di dedicarsi totalmente alla recitazione è stato un apprezzato cantautore folk –, un carattere umile, riflessivo e malinconico che non emerge immediatamente, e odia la tecnologia («Ho il cellulare da poco, solo perché il mio agente mi ha costretto»). Alcune sue frasi, specie se decontestualizzate, lo fanno sembrare il tipo di uomo che cerca di non piacere agli altri. A chi lo ha paragonato a Marlon Brando, per esempio, ha risposto seccamente: «Sono confronti assurdi. Non capisco mai a quale particolare aspetto dell’essere si riferiscano le persone che li fanno». Il regista Tim Sutton, che lo ha diretto nel film Funny Face, lo ha descritto come «un mistero. Un attore con un talento incredibile, dalla forma strana e camaleontica». Nella serie, dal 27/2 su Disney+, Jarvis dimostra che il talento, in effetti, c’è tutto.
Lei e John Blackthorne avete qualcosa in comune?
«Non credo, a parte il fatto che entrambi ci siamo avvicinati alla cultura e alle usanze giapponesi, che non conoscevamo. Ho trovato il mio personaggio in Shogun interessante perché rappresenta quegli uomini del passato che, rischiando la vita, sono andati dove pochi avevano osato prima».
Si è ispirato a qualcuno?
«A mio padre, inglese, ex marinaio mercantile. Ha una personalità che associo al mare e quindi per me è stato pertinente ispirarmi a lui. Ma sono passato attraverso molte rielaborazioni prima di dare la forma definitiva a John Blackthorne».
Magari è stato proprio suo padre a trasmetterle la passione per il cinema?
«Entrambi i miei genitori lo adorano, e adorano la musica. Sono cresciuto guardando film e serie da cui sono stato inevitabilmente influenzato. Non trascorrevo tutta la giornata davanti a uno schermo, però apprezzavo il modo in cui le storie condensavano aspetti della condizione umana e li trasformavano in qualcosa di comprensibile e stimolante».
Che cosa la attrae nelle storie, in particolare in quella di Shogun?
«Amo ciò che ispira un sentimento di meraviglia oppure solleva domande o, ancora, esplora la speranza e la disperazione in egual misura. Penso che Shogun descriva l’avventura più appassionante in cui mi sono imbattuto finora. Mi ha attirato anche la capacità di questa serie di immergere lo spettatore in un’epoca e in circostanze raramente esplorate con tanta cura».
Lei è anche un musicista e la sua canzone Gay Pirates è diventata un cult. Che differenza c’è tra comporre e suonare un pezzo e interpretare un ruolo?
«Non sono più un musicista da molti anni. Ho chiuso con la musica perché mi distruggeva emotivamente. Recitare, invece, è uno strano processo di ricostruzione di ricordi e di rielaborazione per il quale servono “soltanto” un cervello, un corpo e l’immaginazione».