Vanity Fair (Italy)

di FRANCESCO BONAMI SIAMO TUTTI PERFETTI (S)CONOSCIUTI nell’universo di Miranda July

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Se avesse dovuto scrivere una canzone sull’arte di Miranda July (Milano, Osservator­io Fondazione Prada, fino al 14 ottobre), Lucio Battisti avrebbe detto: «Tu chiamala se vuoi confusione». Artista che non vorrei chiamare «multidisci­plinare», ma che in mancanza di una definizion­e migliore son costretto a fare, questa figura cult del mondo del cinema non si ferma lì, e nel corso della sua carriera si espande un po’ ovunque, dalla letteratur­a al web, alla fotografia. Quindi la confusione di Battisti si trasforma in esplorazio­ne, curiosità, ritmo e sentimento creativo. Si potrebbe dire ispirazion­e a 360 gradi, ma proprio lei preferisce non parlare d’ispirazion­e.

Quello che interessa July è la postintimi­tà dei rapporti contempora­nei, o si potrebbe anche dire iper-intimità. Tutti condividia­mo tutto, ma tutti rimaniamo dentro il mondo dei nostri sentimenti a misura di selfie o di post. L’artista americana è una pioniera della condivisio­ne creativa. Il suo progetto web, creato assieme ad Harrell Fletcher, Learning to Love You More, imparando ad amarti di più, è iniziato quasi 25 anni fa ed è stato completato online dall’intervento di 70 sconosciut­i. Il numero 43 di questi 70 compiti in classe s’intitola «Fai una mostra con l’arte che è nell’appartamen­to dei tuoi genitori» e, in occasione della mostra, sarà completato da una donna milanese.

Il rapporto con la realtà quotidiana è al centro degli interessi di Miranda July. F.A.M.I.L.Y., una grande installazi­one video – che è l’acronimo del contrario del concetto di famiglia, Falling Apart Meanwhile I Love You, andare a pezzi mentre ti amo –, nasce dalla collaboraz­ione con sette sconosciut­i beccati su Instagram. L’idea forse è quella di riflettere sul fatto che nel mondo dei social non esistono più sconosciut­i e al tempo stesso non sappiamo più veramente nulla di quello che è vero o falso anche di chi pensiamo di conoscere. Come un film, la nostra vita è costanteme­nte in sala di montaggio, dove scompaiono le parti più tristi. Tu chiamale se vuoi «rimozioni».

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