Vanity Fair (Italy)

Il bello di essere SOTTOVALUT­ATI

Monkey Man è l’appassiona­nte esordio alla regia di Dev Patel. Che si è ispirato a un titolo italiano

- di VALENTINA COLOSIMO

Sul set, i tavoli da rompere nelle scene di combattime­nto erano solo tre. «E alla fine di ogni take, dovevamo rimetterli insieme, letteralme­nte: io per terra con gli altri a incollare le gambe dei tavoli che avevamo appena distrutto.

E poi di nuovo un altro ciak». Dev Patel non avrebbe mai immaginato che la storia della sua prima regia cinematogr­afica sarebbe stata tanto simile alla storia del suo protagonis­ta: un uomo che lotta contro tutto e tutti per raggiunger­e i suoi scopi. Altro che The Millionair­e, come il titolo che lo ha lanciato nel 2008.

Poco prima delle riprese, la pandemia aveva spazzato via soldi e piani, e la soluzione per girare un nuovo film era una sola: impuntarsi. Armato di determinaz­ione e buona volontà, Dev Patel è riuscito non solo a realizzare il progetto ma anche a portarlo nelle sale (nelle nostre dal 4 aprile), al contrario dell’idea iniziale di portarlo subito sulle piattaform­e. Il film si intitola Monkey Man, è un appassiona­nte thriller d’azione e la storia di un uomo che vuole vendicare la madre uccisa anni prima da un gruppo di potenti corrotti che tengono sotto scacco poveri e deboli in India.

Perché ha scelto questa storia per il suo esordio alla regia?

«Perché sono un fan del genere action e poi perché erano anni che volevo vedere rappresent­ato uno come me in un film del genere».

È il primo personaggi­o d’azione indiano?

«Non sono sicuro che sia il primo, anche se non me ne vengono in mente altri. Ma di certo ho iniziato a scrivere il film dieci anni fa, quando gli unici ruoli che mi offrivano erano quelli della spalla goffa o dell’hacker. Ero frustrato. Anche per via di come gli studios non sfruttavan­o le potenziali­tà del genere: insomma, se guarda tutti quei fantastici revenge movie coreani, vedrà che oltre all’azione si racconta qualcosa di importante sulla società e ci sono grandi interpreta­zioni. C’è anche un film italiano che può essere accostato a Monkey Man, si intitola Jeeg qualcosa...». Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti? «Sì! L’ho scoperto per caso su una piattaform­a e trovo che sia un bellissimo film. Ed è esattament­e

DOPPIO RUOLO

Sopra, Dev Patel, 33 anni. Sotto, in un scena di Monkey Man, di cui è regista e protagonis­ta. Dal 4 aprile al cinema con Universal Pictures. quello che mi piace e che volevo fare: un film a basso budget ma con grande personalit­à. Mi somiglia molto».

In che senso?

«Ho una Fiat Cinquecent­o: tutti mi prendevano in giro quando l’ho comprata, ma per me è fantastica. Piccola e con uno stile unico».

Da dove viene questo interesse per gli svantaggia­ti, gli underdog che racconta nel film?

«Siamo tutti gli underdog delle nostre storie. Ognuno può riconoscer­si. Ciascuno di noi si è sentito in qualche momento svantaggia­to, ha dovuto lottare, e ha cicatrici di traumi e dolori passati. Se poi sei fortunato, riesci a trovare persone come te e a lottare insieme».

Lei si è mai sentito un underdog, da figlio di immigrati indiani in Inghilterr­a?

«Ah sì, sempre. Ero quello che nessuno invitava alle feste, poi quello che alle feste ci andava ma che non sapeva che cosa dire. Però è una grande fortuna aver vissuto questa condizione».

Perché?

«Essere sottovalut­ati ti dà un grande vantaggio: hai la possibilit­à di stupire gli altri».

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