LA FEMMINILITÀ PIÙ FELICE SI RIVELA COMPIUTAMENTE NEL GESTO SPORTIVO
Quando sapeva di essere vista, la dea Artemide cacciava e correva come un uomo. Tornava a essere una donna solo quando – circondata dalle sue ninfe che come ancelle fedeli la preparavano per il bagno nella sua fonte sacra – si sentiva al riparo da occhi indiscreti. Atteone violò questo tabù: finì trasformato in cervo, sbranato dai suoi stessi cani. Artemide rappresenta da un lato l’impossibilità della seduzione: appena nata, chiese al padre Zeus il dono dell’eterna verginità. Chi provò a profanarla anche solo con gli occhi, come Atteone, fu punito senza pietà. Ma il potere erotico di Artemide che corre e caccia, imprendibile per definizione, crea un archetipo incancellabile del desiderio: si desidera davvero solo quello che non si possiede, solo quello che appare inaccessibile. La seduzione di Afrodite, statica, è la seduzione della bellezza pura e semplice, di un amore che placa e appaga; il desiderio per la donna che corre via è invece il segno di un amore continuamente alimentato dall’impossibilità di soddisfarlo. Il potere erotico di Artemide, come ogni archetipo, si declina in figure diverse. Ovidio nelle “Metamorfosi” racconta la corsa di Atalanta – la campionessa che sfidava e batteva in velocità i suoi pretendenti – e lo fa descrivendo la bellezza di lei, trasfigurata dallo sforzo fisico che la porta alla vittoria. La corsa la fa ancora più bella, sotto gli occhi di Ippomene che mentre lei corre si innamora: «Per quanto stupito al vederla filare come una freccia degli Sciti», scriveva il poeta romano, «ancor di più è stupito della sua bellezza». Atalanta corre veloce, solleva la polvere con piedi calzati di sandali d’oro: «I capelli svolazzano sulle spalle d’avorio, come svolazzano le fasce, dai bordi ricamati, che ha alle ginocchia; e il candore verginale del suo corpo si è soffuso di rosa: così una tenda di porpora, in un atrio marmoreo, trasmette al bianco come un velo d’ombra». Vince lei la corsa: viene incoronata mentre i pretendenti pagano con la vita la sconfitta. La metafora della seduzione impossibile si tende fino all’apice del più spietato agonismo; ma proprio nel momento dello sforzo, dell’esercizio, la potenza del suo corpo in tensione la rende più seducente che mai. Al di là del mito, nella Grecia antica esistevano, in effetti, donne che lottavano ed erano ammesse ai giochi olimpici: secondo Plutarco, erano le uniche in grado di generare dei veri uomini e di comandare i loro mariti. Erano le donne di Sparta, famose per essere le più sane di tutta la Grecia, le uniche che trattassero gli uomini alla pari e seguissero un corretto regime alimentare. Nelle statuette, nelle figurine, nelle coppe che le ritraggono nella tensione della corsa o nell’atto di cavalcare, spesso con il seno scoperto e vestiti corti, sono belle come Atalanta. Sono immagini insolite, quelle delle ragazze spartane, dal punto di vista iconografico. Colpirono Degas poco più che ventenne: molto prima delle sue ballerine, dipinse dei bellissimi nudi di adolescenti che, acerbe e decise, sfidano i loro coetanei alla lotta. Rispetto alla staticità tipica della rappresentazione della figura femminile (e della sua autorappresentazione, che nasce per analogia o per contrasto da una tradizione mediata soprattutto dall’occhio maschile), la naturalezza di questi movimenti ha qualcosa di insolito. La pittura prima e, in seguito, la fotografia hanno scelto spesso, rispetto alla figura della donna, la via della contemplazione – fino al limite dell’adorazione feticistica – di un’immagine immobile, che si offre all’occhio dello spettatore in una posa che gli permette di esplorarla, di appagarsi del proprio sguardo. È il modello della seduzione statica di Afrodite, non quella dinamica di Artemide, a imporsi nel codice iconografico della femminilità. Le immagini realizzate da Bruce Weber sono sorprendenti proprio come le statuette che ritraggono le ragazze spartane. Sono immagini lontane da quelle dei corpi sublimati delle atlete di Leni Riefenstahl, che nel suo celebre film sulle Olimpiadi di Berlino del 1936, “Olympia”, si confondono con le statue del Partenone. Sono più vicine, nella gioia che sprigionano, alla Jane Fonda aerobica degli anni Ottanta. Sono belle senza assomigliarsi, le donne di Weber. Senza adattarsi a un canone estetico preciso, si assomigliano solo nel dinamismo dei gesti. La vera sorpresa è che la loro femminilità non appare come una rivendicazione, non è incongrua o fuori luogo. Si rivela con disinvoltura nel gesto sportivo, nell’appagamento del gioco. In queste immagini non c’è né la retorica trionfalistica e celebratoria dei corpi ieratici di Riefenstahl, né quella della rivendicazione, di un’appropriazione di spazi che si pretendono destinati solo ai maschi. C’è l’immediatezza del piacere di avere un corpo e di usarlo per muoversi, correre, giocare. È proprio in questa inaspettata naturalezza che sta la bellezza di queste donne: atlete che si divertono a fare sport, e sono belle, con una corona in testa o in posture da bambina, oppure con un’onda di capelli al vento. Non c’è contraddizione, non c’è bisogno di precisare altro legame, fra l’esercizio fisico e la loro bellezza, che quello semplice, elementare della congiunzione: le due cose stanno benissimo nella stessa frase. Fanno sport, e sono femminili. Non esibiscono il corpo come segno di sfida. Perché non fanno sport nonostante i loro attributi femminili; e neppure sono femminili nonostante facciano sport. Per questo il codice estetico di Weber e delle sue donne è ancor più sorprendente.