Sharing fashion
Come Livia Firth, i Millennials credono nella moda responsabile e durevole. Per questo crescono le app che permettono di condividere gli abiti, invece che comprarli
Livia Firth, celebre supporter della moda sostenibile, ha una ricetta molto semplice per mantenere un approccio responsabile ai consumi: «Assicuratevi, prima di buttare via un abito, di averlo indossato almeno trenta volte». Un traguardo che sembra a portata di mano. Tuttavia non è affatto scontato riuscirvi, anche perché le aziende del fast fashion immettono sul mercato, ogni due settimane, prodotti nuovi e accattivanti a prezzi altrettanto appetibili. I semi del cambiamento, forse in modo inatteso, stanno germogliando tra i consumatori più giovani: i Millennials dicono infatti di considerare più rivoluzionaria la moda “responsabile” di quella a basso costo. I dati lo confermano: secondo uno studio condotto da PwC in Italia su 3.160 persone con un’età media di 24 anni, la variabile che incide maggiormente sull’acquisto di un prodotto fashion è la qualità (indicata dal 14% dei Millennials), seguita a pari merito dalla durabilità. L’acquisto di un capo o un accessorio di alto livello non è alla portata di tutti, certo. Per questo nell’epoca della sharing economy si sta facendo strada un concetto di “moda partecipata” che fa della condivisione e dello scambio due pilastri della strategia antispreco. Oggi la Rete rende possibile la concretizzazione di molte idee e la moda si condivide nei modi più diversi: con i gruppi su Facebook nei quali le amiche si danno appuntamento per scambiarsi i vestiti messi già troppe volte (ma ancora in perfetto stato), o grazie alle applicazioni come Depop che permettono di postare e vendere capi e accessori in pochi click. C’è chi, poi, al posto di vendere e acquistare, preferisce prendere in affitto un vestito o una borsa: una pratica sempre più diffusa tra i giovani e le giovani fashion addict. Che non sono soltanto consumatori esigenti, ma anche fondatori di startup che “rileggono” la moda con le logiche care a Airbnb. «Abbiamo lanciato il progetto nel febbraio 2016 in risposta a una tendenza che avevamo potuto osservare in alcuni college del Sud degli Stati Uniti», spiega Brooke Meitzler, tra i fondatori della app Curtsy, «dove le ragazze si scrivevano per prestarsi i vestiti. Abbiamo voluto rendere il processo più semplice». L’app, oggi attiva per gli studenti di circa 20 college, ha 15 mila utenti. «Affittare è meglio che vendere, perché se il vestito è molto popolare permette di guadagnare di più», chiosa Meitzler. Tra le altre piattaforme di successo ci sono rentezvous.com, fondato da Fiona Disegni, un ampio fashion rental marketplace con sede a Londra, e drexcode.com, creato dalle italiane Federica Storace e Valeria Cambrea. Dall’altra parte del mondo, e più precisamente in Australia, invece, Briella Brown ha fondato yourcloset.com.au, un sito che, oltre ad affittare i vestiti, vanta una partnership con una lavanderia ecologica di Sydney. Mentre in India Sabena Puri ha creato stage3.co, dove affittare un abito (o un sari) per una cerimonia o una serata speciale. Se per arginare lo shopping compulsivo ci si impone, come fa la già citata Livia Firth, fondatrice di Eco-Age, la regola delle 30 volte, non è detto che a indossare un capo non possa essere ogni volta una persona diversa.