Capitolo Primo
Nel periodo in cui iniziai la stesura di “Chiamami col tuo nome” ricordo di aver annotato sul mio diario: «Martedì scorso mi sono svegliato con l’urgenza di scrivere un romanzo ambientato in Italia. Ho già prodotto una trentina di pagine, quasi di getto, e anche se ci sono insidie e punti controversi, non ne ho paura». La velocità delle mie mani era di gran lunga superiore a quella della mia capacità di immaginare gli avvenimenti.
Di rado il Capitolo Primo è semplice per gli scrittori o, per quel che vale, per chiunque si avventuri in una nuova impresa: sia essa una nuova attività, un nuovo lavoro o il primo giorno di un importante processo. Ci vogliono coraggio, determinazione e capacità di superare un’ansia paralizzante. Occorre soprattutto intraprendenza. Agli scrittori l’incipit crea profonda diffidenza nei confronti delle proprie capacità di artista. Sarò all’altezza di questo lavoro? Quanto tempo impiegherò per portarlo a termine? Vado avanti o faccio meglio a gettare subito la spugna?
Esistono tuttavia scrittori abbastanza fortunati da essere capaci di sottrarsi a questi momenti di scoraggiamento, perché guidati dalla profonda fiducia nella loro capacità di superare qualsiasi tipo di crisi. Non danno ospitalità a pensieri negativi. I problemi, una volta incontrati, vengono affrontati e risolti subito, oppure accantonati. Altri rimangono invece bloccati per giorni, se non addirittura per settimane. Armeggiano e litigano con ogni parola o frase. Restano testardamente fermi lì, immobili. Possono ritenersi fortunati se riescono a buttare giù un solo paragrafo al giorno.
Esiste però anche un’altra specie di scrittore, quello che scrive d’impulso, che scribacchia una pagina, o trenta, perché convinto che quei fogli non abbiano alcuna importanza, non siano seri e con ogni probabilità andranno a finire in un cestino, ed è proprio questo il motivo per cui riesce a scrivere pressoché di qualsiasi argomento. Proprio come un pianista che prima di accingersi a interpretare la “Hammerklavier” di Beethoven si sgranchisce le dita strimpellando un motivo inventato lì per lì, ma che dimentica una volta immerso nelle note della sonata.
Ma lo scritto, considerato alla stregua dello scanzonato motivo suonato distrattamente, è proprio ciò di cui l’autore ha bisogno per dare avvio a qualcosa che alla fine può trasformarsi in una prova molto impegnativa. Questa è la ragione per cui a volte amo scrivere in metropolitana. Il risultato non può in alcun modo essere preso sul serio, con ogni probabilità verrà cestinato e di certo non presta la minima attenzione al ritmo.
Alcuni di noi affrontano i progetti più importanti con un approccio noncurante perché forse non si reputano degni di considerazione. Non hanno nemmeno una traccia, né si preoccupano dei conflitti o delle contraddizioni. Si stanno solo divertendo e ciò che producono potrebbe addirittura essere di loro gradimento. Ho cominciato “Chiamami col tuo nome” quasi per gioco. Non avrei mai avuto il coraggio di scriverlo nel modo in cui poi ho fatto se fin da subito avessi progettato un romanzo serio.
Tre mesi più tardi mi ritrovai tra le mani un manoscritto di quasi 300 pagine. Lo inviai alla mia agente dicendole che se non fosse stato un buon romanzo, non avrei avuto alcun problema a riporlo in un cassetto e a non parlargliene mai più. Il mattino dopo mi telefonò. «Non sono riuscita a smettere di leggerlo», mi disse. •
* scrittore americano, 66 anni, il suo ultimo libro è “Variazioni su un tema originale” (Guanda).