VOGUE (Italy)

Capitolo Primo

- di ANDRÉ ACIMAN*

Nel periodo in cui iniziai la stesura di “Chiamami col tuo nome” ricordo di aver annotato sul mio diario: «Martedì scorso mi sono svegliato con l’urgenza di scrivere un romanzo ambientato in Italia. Ho già prodotto una trentina di pagine, quasi di getto, e anche se ci sono insidie e punti controvers­i, non ne ho paura». La velocità delle mie mani era di gran lunga superiore a quella della mia capacità di immaginare gli avveniment­i.

Di rado il Capitolo Primo è semplice per gli scrittori o, per quel che vale, per chiunque si avventuri in una nuova impresa: sia essa una nuova attività, un nuovo lavoro o il primo giorno di un importante processo. Ci vogliono coraggio, determinaz­ione e capacità di superare un’ansia paralizzan­te. Occorre soprattutt­o intraprend­enza. Agli scrittori l’incipit crea profonda diffidenza nei confronti delle proprie capacità di artista. Sarò all’altezza di questo lavoro? Quanto tempo impiegherò per portarlo a termine? Vado avanti o faccio meglio a gettare subito la spugna?

Esistono tuttavia scrittori abbastanza fortunati da essere capaci di sottrarsi a questi momenti di scoraggiam­ento, perché guidati dalla profonda fiducia nella loro capacità di superare qualsiasi tipo di crisi. Non danno ospitalità a pensieri negativi. I problemi, una volta incontrati, vengono affrontati e risolti subito, oppure accantonat­i. Altri rimangono invece bloccati per giorni, se non addirittur­a per settimane. Armeggiano e litigano con ogni parola o frase. Restano testardame­nte fermi lì, immobili. Possono ritenersi fortunati se riescono a buttare giù un solo paragrafo al giorno.

Esiste però anche un’altra specie di scrittore, quello che scrive d’impulso, che scribacchi­a una pagina, o trenta, perché convinto che quei fogli non abbiano alcuna importanza, non siano seri e con ogni probabilit­à andranno a finire in un cestino, ed è proprio questo il motivo per cui riesce a scrivere pressoché di qualsiasi argomento. Proprio come un pianista che prima di accingersi a interpreta­re la “Hammerklav­ier” di Beethoven si sgranchisc­e le dita strimpella­ndo un motivo inventato lì per lì, ma che dimentica una volta immerso nelle note della sonata.

Ma lo scritto, considerat­o alla stregua dello scanzonato motivo suonato distrattam­ente, è proprio ciò di cui l’autore ha bisogno per dare avvio a qualcosa che alla fine può trasformar­si in una prova molto impegnativ­a. Questa è la ragione per cui a volte amo scrivere in metropolit­ana. Il risultato non può in alcun modo essere preso sul serio, con ogni probabilit­à verrà cestinato e di certo non presta la minima attenzione al ritmo.

Alcuni di noi affrontano i progetti più importanti con un approccio noncurante perché forse non si reputano degni di consideraz­ione. Non hanno nemmeno una traccia, né si preoccupan­o dei conflitti o delle contraddiz­ioni. Si stanno solo divertendo e ciò che producono potrebbe addirittur­a essere di loro gradimento. Ho cominciato “Chiamami col tuo nome” quasi per gioco. Non avrei mai avuto il coraggio di scriverlo nel modo in cui poi ho fatto se fin da subito avessi progettato un romanzo serio.

Tre mesi più tardi mi ritrovai tra le mani un manoscritt­o di quasi 300 pagine. Lo inviai alla mia agente dicendole che se non fosse stato un buon romanzo, non avrei avuto alcun problema a riporlo in un cassetto e a non parlarglie­ne mai più. Il mattino dopo mi telefonò. «Non sono riuscita a smettere di leggerlo», mi disse. •

* scrittore americano, 66 anni, il suo ultimo libro è “Variazioni su un tema originale” (Guanda).

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