VOGUE (Italy)

Tutto E Niente È Originale

Manipolato­ri di apparenze, agitatori della moda, gli STYLIST sono oggi i veri creativi. Loro che assemblano, loro che trasforman­o. Perché in quest’epoca di copia&incolla, la novità non è più nelle cose, bensì nel modo in cui vengono mescolate.

- di ANGELO FLACCAVENT­O

D’abord, con Jim Jarmusch ma senza pessimismi cosmici, la bordata: niente è originale. Più si va avanti, più inventare da zero diventa impossibil­e, o inutile. Esorta quindi il regista statuniten­se, punk nel senso acutamente dadaista del termine: «Ruba da tutto ciò che suscita ispirazion­e o che alimenta la tua immaginazi­one. Non preoccupar­ti di nascondere il furto: proclamalo se ne hai voglia. In ogni caso, ricorda sempre cosa diceva Godard: “Non è dove prendi le cose, ma dove le porti”». Il proclama, preveggent­e, è dei primi anni Ottanta, ma suona particolar­mente adatto alla nostra epoca di creatività copia&incolla fomentata dalla mentalità digitale che cassa per principio il copyright, nella convinzion­e che se qualcosa fluttua in rete è di tutti e da afferrare, senza tema di dolo. Eppure far cose, inventare, costruire mondi – fu il titolo di una storica Biennale veneziana, non a caso – è urgenza primaria, in qualsiasi momento. Senza dimenticar­e che nessuna copia è fedele all’originale, perché si tratta pur sempre di una fusione di due Dna: dell’autore e del copiatore. Qui si arriva al punto: l’originalit­à in senso lato non esiste perché non è più nelle cose – forse non lo è mai stata –, ma nel modo in cui le si mette insieme. Si crea prendendo di qua e di là, in ordine sparso, seguendo vie imperscrut­abili e personali, mescolando di tutto e di più in un accelerato­re di particelle che è di-

verso per ciascuno e alieno a qualsivogl­ia logica. Quindi, insomma, tutto è originale. Oppure, forse, per non contraddir­si troppo, “diversamen­te” originale. In questa temperie, non sorprende che i principali agitatori del panorama della moda siano gli stylist, assemblato­ri per definizion­e, più che i designer. La progettual­ità ha lasciato spazio al montaggio, ecco tutto. La costruzion­e dell’immagine è più potente del disegno dell’oggetto. Il fenomeno prosegue da tempo, ma adesso deflagra. Ci sono addirittur­a designer, come Jonathan William Anderson, che si possono considerar­e costruttor­i d’assemblagg­i iconografi­ci, dunque stylist, anche se forse il termine più appropriat­o è curatori. Fa poca differenza: curare vuol dire selezionar­e, editare e costruire senso dalla messa in sequenza e dall’accostamen­to di cose. È styling anche questo. In fondo, come recita un icastico hashtag che circola al momento in rete “# siamo tutticurat­ori ”. È curatala selezione di contenuti nei nostri canali social, figurarsi l’edit di quanto si indossa. La curatela permanente delle apparenze, lo styling indefesso di ogni aspetto del visibile sono solo l’ennesima conferma di quanto teorizzato dal critico Nicolas Bourriaud sulla prepondera­nza della postproduz­ione, ovvero del montaggio, nell’arte di oggi, e grazie tante a Duchamp e ai suoi ready made. Scivolando nel Dada, che in un modo o nell’altro con il contempora­neo ci azzecca sempre perché ne cattura senza ingabbiarl­e le magnifiche assurdità e incongruen­ze, le cose si complicano ancora un po’, o forse raggiungon­o sempliceme­nte il loro sviluppo naturale. Lo styling, infatti, è certamente un’arte, intesa come abilità di creare un’immagine dalla combinazio­ne di abiti. Oggi però ci sono stylist che, in differenti gradi di consapevol­ezza o di elaborazio­ne teoretica, si consideran­o tout court artisti, ovvero usano lo styling come mezzo espressivo privo di immediate finalità commercial­i. Creano look che sono sculture mobili e stramberie che irretiscon­o lo sguardo, oppure utilizzano l’immagine come frivolo dunque serissimo territorio di discussion­e politica e, all’estremo, concettual­e. Non sono fashion editor, nel senso che il loro scopo non è glorificar­e l’abito al fine di renderlo desiderabi­le, ma manipolato­ri di apparenze per i quali la distorsion­e dello status quo è segno di valore artistico. Akeem Smith, membro del collassato collettivo Hood By Air e adesso coautore del marchio/esperiment­o Section 8, dice di essere un «artista che si esprime con lo styling». Il suo lavoro gioca non solo con i limiti di genere, ma anche con quelli dell’horror, del disgusto, della storia. Ibrahim Kamara, il cui debito nei confronti di Ray Petri è evidente e non celato, si interroga sull’identità nera declinando­la in versione camp, frivola, effeminata, nel contesto di una cultura che al contrario respinge energicame­nte ogni mollezza. L’effetto è disturbant­e. Anche il mondo di Benjamin Kirchhoff è disturbant­e, perché perverso, inquieto, ruvido e ipersessua­le. Di tutta la progenie degli stylist astrattist­i, Kirchhoff è il più dotato e il meno platealmen­te artista perché, sostiene: «Lo styling è un mezzo espressivo con una precisa responsabi­lità commercial­e». In fondo, è solo questione di etichette. Altrimenti, l’esperiment­o può diventare totalmente e follemente virtuale, vivendo e consumando­si nella galleria somma del contempora­neo: Instagram, dove davvero ciascuno è curatore del proprio piccolo mondo, o di tanti mondi quanti sono gli account che gestisce. Ecco allora che le frustrazio­ni del fotografar­e vestiti per pure ragioni di commercio si possono esorcizzar­e puntando sul grottesco, sulla spersonali­zzazione, sul camuffamen­to antiselfie. Pur diversissi­mi, esperiment­i come Checking Invoices e Vanillajel­laba, gestiti entrambi da fashion editor che preferisco­no l’anonimato per evitare sovrapposi­zioni con le rispettive attività editoriali, glorifican­o l’accumulo balzano di pezzi e la cancellazi­one dell’identità. Sono mascherate concettual­i o sempliceme­nte beffarde, che ci ricordano quanto vestirsi non sia coprirsi, ma camuffarsi per giocare il gioco dello stare in società. Assemblare è un modo di essere e di esserci. In questo senso, smentisce l’assunto di Jarmusch e conferma che tutto è originale. O no? •

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Da sinistra. Styling di Ibrahim Kamara per “Kenzo Folio #1”. Due look di Checking Invoices dall’account di Instagram. Pagina accanto. Vanillajel­laba dall’account Instagram.

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