VOGUE (Italy)

Acqua E Psiche

- LUCA GUADAGNINO*

Io non ho mai imparato a nuotare e ho sempre preferito la campagna al mare sentendolo come un ambiente più mio. Uno dei primi eventi traumatici di cui ho memoria è appunto legato all’acqua e alla mia incapacità di gestirla. Avevo dieci anni ed ero in vacanza con la mia famiglia, perso nei miei pensieri a bordo piscina. Un gruppo di ragazzini tedeschi, tra schiamazzi urlati in una lingua che non capivo, mi buttarono in acqua, con la ferocia divertita che spesso sfoderano gli adolescent­i. Cominciai ad agitarmi, a ingerire molta acqua e in un attimo mi ritrovai a precipitar­e sul fondo. Fu mio fratello JeanMarie a salvarmi, e probabilme­nte senza il suo intervento da quella piscina non sarei mai uscito vivo. Tuttavia, ho la fortuna di avere un impulso alla narrazione e il cinema, che è il mio linguaggio, mi dà modo di usare i miei desideri e le mie paure in maniera produttiva, anche esibendoli impudicame­nte, come peraltro ho fatto nei miei film, allorché le piscine sono elementi che ritornano costanteme­nte, spesso come luogo in cui si muore. Attraverso il cinema ho cercato sempre di fare virtù delle mie paure, fin dal mio “Melissa P.” Melissa nel film non sa nuotare e la piscina è legata al tema sessuale – che della morte è la contropart­e uguale e opposta; la piscina torna mortifera in “Io sono l’amore”, è in essa che Edoardo Recchi perde la vita; mentre in “A bigger splash” è il teatro di un omicidio. Ecco, quello che respinge inevitabil­mente attrae e in quanto regista ho la fortuna di poter rimettere i miei drammi in gioco a ogni film e così – per usare una defi- nizione psicanalit­ica – cercare di abreagire il trauma non superato nell’infanzia. Per “Call me by your name”, il discorso è un po’ diverso. Nella villa di campagna in cui Elio, il protagonis­ta, vive, c’è un antico abbeverato­io di pietra in cui la famiglia nuota come se fosse una piscina. Questo però è il mio film più gentile e né il sesso né la morte occupano uno spazio fondamenta­le. quasi un idillio sull’innamorame­nto e la scoperta dell’altro; forse anche per questo ho evitato la violenza cui la piscina si lega nel mio ricordo. Mi è sembrato invece naturale che ci fosse un ambiente intimo, caldo e avvolgente, uno spazio senza pericoli nel quale l’unico atto di coraggio vero fosse sostenere lo sguardo della persona che si è scelto di amare. Però nel mio cinema non vanno dimenticat­e le piscine dell’arte, quelle dei dipinti di Hockney, cui ho persino osato rubare un titolo nell’intento di fargli omaggio. Hockney rappresent­a spesso nei quadri la borghesia, e la analizza ritraendol­a nei suoi luoghi con un tratto preciso, pulito e luminoso. Nei suoi dipinti le piscine hanno forse anche il senso della precisione filologica di narrare un soggetto nel suo ambiente di appartenen­za. Anche io nel narrare ricerco una precisione lucida e cosciente, eppure questa si intreccia ai drammi inconsci e tutti questi significat­i sciolti spesso nei miei film coincidono nel significan­te della piscina, in quello che Freud avrebbe forse chiamato un processo di sovra-determinaz­ione, ossia di convergenz­a di elementi disparati in un unico significan­te. •

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