Acqua E Psiche
Io non ho mai imparato a nuotare e ho sempre preferito la campagna al mare sentendolo come un ambiente più mio. Uno dei primi eventi traumatici di cui ho memoria è appunto legato all’acqua e alla mia incapacità di gestirla. Avevo dieci anni ed ero in vacanza con la mia famiglia, perso nei miei pensieri a bordo piscina. Un gruppo di ragazzini tedeschi, tra schiamazzi urlati in una lingua che non capivo, mi buttarono in acqua, con la ferocia divertita che spesso sfoderano gli adolescenti. Cominciai ad agitarmi, a ingerire molta acqua e in un attimo mi ritrovai a precipitare sul fondo. Fu mio fratello JeanMarie a salvarmi, e probabilmente senza il suo intervento da quella piscina non sarei mai uscito vivo. Tuttavia, ho la fortuna di avere un impulso alla narrazione e il cinema, che è il mio linguaggio, mi dà modo di usare i miei desideri e le mie paure in maniera produttiva, anche esibendoli impudicamente, come peraltro ho fatto nei miei film, allorché le piscine sono elementi che ritornano costantemente, spesso come luogo in cui si muore. Attraverso il cinema ho cercato sempre di fare virtù delle mie paure, fin dal mio “Melissa P.” Melissa nel film non sa nuotare e la piscina è legata al tema sessuale – che della morte è la controparte uguale e opposta; la piscina torna mortifera in “Io sono l’amore”, è in essa che Edoardo Recchi perde la vita; mentre in “A bigger splash” è il teatro di un omicidio. Ecco, quello che respinge inevitabilmente attrae e in quanto regista ho la fortuna di poter rimettere i miei drammi in gioco a ogni film e così – per usare una defi- nizione psicanalitica – cercare di abreagire il trauma non superato nell’infanzia. Per “Call me by your name”, il discorso è un po’ diverso. Nella villa di campagna in cui Elio, il protagonista, vive, c’è un antico abbeveratoio di pietra in cui la famiglia nuota come se fosse una piscina. Questo però è il mio film più gentile e né il sesso né la morte occupano uno spazio fondamentale. quasi un idillio sull’innamoramento e la scoperta dell’altro; forse anche per questo ho evitato la violenza cui la piscina si lega nel mio ricordo. Mi è sembrato invece naturale che ci fosse un ambiente intimo, caldo e avvolgente, uno spazio senza pericoli nel quale l’unico atto di coraggio vero fosse sostenere lo sguardo della persona che si è scelto di amare. Però nel mio cinema non vanno dimenticate le piscine dell’arte, quelle dei dipinti di Hockney, cui ho persino osato rubare un titolo nell’intento di fargli omaggio. Hockney rappresenta spesso nei quadri la borghesia, e la analizza ritraendola nei suoi luoghi con un tratto preciso, pulito e luminoso. Nei suoi dipinti le piscine hanno forse anche il senso della precisione filologica di narrare un soggetto nel suo ambiente di appartenenza. Anche io nel narrare ricerco una precisione lucida e cosciente, eppure questa si intreccia ai drammi inconsci e tutti questi significati sciolti spesso nei miei film coincidono nel significante della piscina, in quello che Freud avrebbe forse chiamato un processo di sovra-determinazione, ossia di convergenza di elementi disparati in un unico significante. •