Sono L’Archivista Del MioTempo
«Con una semplice foto cerco di catturare questo caos incredibile e avvincente, questo sfavillio evanescente di idee e di libertà»: in esclusiva per Vogue Italia, torna HEDI SLIMANE. Con uno straordinario portfolio (a p.102), e quest’intervista a cuore aperto.
La fotografia è sempre stata una sua passione: è vero che da giovane, a Parigi, si immaginava fotoreporter? Sì, ho cominciato presto a sognare di diventare un reporter di “Le Monde”, avrò avuto 13 anni. Crescendo, mi sono appassionato alla storia e alle scienze politiche. A 11 anni già scattavo qualche foto, in bianco e nero, e le stampavo da solo. Nella mia testa ho sempre avuto ben chiaro quello che volevo fare: documentare il mondo, essere l’archivista del mio tempo, vivere nel momento. Da adolescente mi affascinava l’idea della rappresentazione della giovinezza. Penso che tutto sia iniziato quando mi sono avvicinato al primo romanticismo tedesco, a Goethe in particolare. “I dolori del giovane Werther” mi ha profondamente influenzato: l’angoscia esistenziale del protagonista e i suoi momenti di perfetta beatitudine mi scuotevano. La mia giovinezza l’ho sempre osservata da una certa distanza. Non prendevo realmente parte all’azione e vedevo gli amici intorno a me come attraverso una lente, spettatore della nascita di possibili futuri talenti e dell’irrequietezza dei loro comportamenti. Credo che questa necessità di raccontare quello che mi circonda sia sempre stata il fulcro di ciò che faccio e di come lavoro, penso di essere stimolato da ciò che sta per accadere. Un reportage fotografico senza fine, insomma. I suoi scatti hanno il fascino della tentazione, un’intrinseca vena artistica e giornalistica. Lasciano intuire le storie dei personaggi ritratti, aprono uno spiraglio sul loro mondo interiore. Come sceglie chi ritrarre? Cosa la spinge verso il soggetto da fotografare? È un processo molto naturale e, penso, frutto di una semplice coincidenza: siamo solo sulla stessa strada. Scattare una foto è come scrivere un racconto su qualcuno. La maggior parte dei soggetti che ho ritratto negli ultimi 25 anni hanno in comune una pulsione artistica, un carattere volitivo e una personalità ben precisa. Al centro dell’obiettivo non c’è mai la bellezza, semmai un che di eroicamente reale e poeticamente eccentrico o singolare. Un caos incredibile e avvincente. Sono attratto dall’unicità, da quel mondo affascinante, seducente e magico che ognuno costruisce attorno a sé. Tendo a considerarlo come un cerimoniale sacro e scintillante che ciascuno di noi segue in ogni momento della propria vita. Con una semplice foto cerco di catturare lo sfavillio evanescente di questo rito, conservarlo, assicurandomi di creare un ricordo. Nella maggior parte dei casi le persone che ritraggo non sono consapevoli di questa loro stravagante qualità, dello spirito di libertà che li anima, e si limitano a vivere la loro vita con incauta indifferenza. Parigi, Londra, Berlino e ora Los Angeles. Lei è diventato un tutt’uno con i luoghi in cui lavora. E spesso, anche se non in modo esclusivo, questo legame si è creato grazie alla musica... La musica è la sintassi alla base del mio linguaggio fotografico, ma sta anche dietro tutte le mie creazioni degli ultimi due decenni. A sei anni, oltre alle fiabe dei fratelli Grimm, le uniche cose che ascoltavo erano le canzoni di David Bowie del periodo di “Aladdin Sane”, “Angie” degli Stones ed Elvis, che fasciato in un vestito tutto dorato cantava “Suspicious Minds”. Le copertine degli album erano un vortice di ispirazioni, ipnotizzato com’ero da tutto quel luccichio e dalle promesse decadenti che sprigionavano dal palcoscenico. A Parigi, verso il 1997 – lavoravo per Saint Laurent – ho iniziato a realizzare i miei primi modelli all’interno di quella minuscola, allora nascente comunità creativa chiamata poi “French Touch”. Nel 2000 sono approdato a Berlino. La città era ancora immune dall’aggressività della promozione turistica e mediatica, e vi ho potuto sperimentare in prima persona la musica elettronica concettuale e i primi passi della rinascita del rock e delle guitar band. Berlino, per me, era una pagina bianca. Ho vissuto lì tre anni in una residenza per artisti. La sua influenza ha pesato sui miei inizi da Dior, dove ho cercato di “contaminare” Parigi con le vibrazioni o i guizzi di energia della Berlino di inizio millennio. Per le strade della città ho scelto parecchi giovani musicisti e altrettanti sconosciuti; ho pubblicato un libro su quelle esperienze, e alla fine ho
concluso questo ciclo con una mostra all’istituto di arte contemporanea Kunst-Werke, dove ho cercato di descrivere lo spirito libero di questa generazione poetica. Con il 2002, poi, sono rimasto per la maggior parte del tempo a Londra, circondato da un gruppo di musicisti inglesi che si esibivano nella zona est. C’erano un giovanissimo Pete Doherty, Carl Barat, i Franz Ferdinand, The Others, The Rakes, The Paddingtons, cui più tardi si sono aggiunti Alex Turner, i Klaxons, i These New Puritans e numerosi altri talenti di quel periodo d’oro. Ho documentato nel dettaglio ciò che per me era uno dei momenti musicali più entusiasmanti. A partire dal 2005, le sfilate di Dior Homme erano costellate da questa grandiosa moltitudine di band britanniche e la moda che disegnavo allora era un mio tributo a loro, una specie di collezione di costumi di scena. Quando il periodo delle rock band inglesi è arrivato alla fine, mi sono trasferito in California. Era il 2007 e, musicalmente parlando, non c’era granché a Los Angeles né, in generale, in California, ma lì tutto mi sembrava nuovo e inesplorato. Possibile. Da ogni angolo della California arrivavano voci nuove, come Girls, No Age, The Growlers, Ty Segall, Fidlar, Mystic Braves, Allah-Las, Froth, il duo The Garden, solo per citarne alcuni, tutti impegnati a distillare distorti riff psichedelici e un nuovo sound per la surf music. Il mio lavoro su rappresentazione estetica e musicale nel 2011 l’ho trasformato in una mostra al Moca, “California Song”. In qualche modo, il portfolio per Vogue Italia è un’evoluzione di quella generazione, a distanza di dieci anni. Da allora seguo e fotografo alcuni di questi personaggi, per la maggior parte musicisti, alcuni nuove scoperte, in una ricerca entusiasmante e in costante divenire. Ci racconti qualcosa sulle band del portfolio di questo numero. La maggior parte degli artisti è stata fotografata a casa, negli studi di registrazione o in concerto. Tutti indossano i loro costumi di scena. Per i ritratti, in particolare quelli dei musicisti, non ha senso interferire con lo stile personale. Non si può separare il sound dallo stile. Qual è il rapporto della scena di Los Angeles con quella delle altre città che ha documentato fotograficamente? Tutte possono essere paragonate a una società segreta, non animata da scopi commerciali o dal desiderio di pubblicizzare ciò che fa. Penso che proprio la sovrapposizione di scene molto diverse tra loro, quel senso di isolamento tra le varie realtà creative, renda la California un luogo unico da questo punto di vista. Tra la fine degli anni 70 e gli inizi degli 80 Londra era proprio questo, una commistione di “tribù” musicali con cifre stilistiche specifiche.