Avere 40 Anni
Estate 1977: a poche settimane di distanza escono i 14 dischi che fanno LA STORIA DEL PUNK. Con maleducato fragore, i ragazzi della blank generation mandano all’aria per sempre i vecchi modi di pensare moda e musica, convinti di non avere futuro. E invece
«Lo spirito libero del punk è ciò che tiene viva la moda. Senza di esso, non avremmo nulla di nuovo ed eccitante».
Il mondo della musica e quello della moda sono cambiati per sempre nell’estate del 1977. Su entrambe le sponde dell’Atlantico, Londra e New York vacillavano nello stesso momento sull’orlo di un collasso socioeconomico: mentre la capitale britannica era in ginocchio colpita da continui attentati dell’Ira e Margaret Thatcher stava per assumere il potere, New York era sull’orlo del caos, alle prese con la serie di omicidi compiuti da David Berkowitz, noto come Son of Sam, i blackout, le razzie. Improvvisamente, l’atmosfera inondata di sole e dell’ottimismo degli anni 70, gli hippies dai lunghi capelli lisci e le discoteche pacchiane non esercitavano più alcun fascino sulla gente. I giovani quindi si ribellarono e l’effetto fu apocalittico: era arrivato il punk. Quella che seguì fu una reazione creativa contro il capitalismo e il conformismo senza precedenti e di proporzioni eccezionali, che ridefinì un’intera generazione di giovani scontenti. Nel giro di poche settimane uscirono, uno dopo l’altro, più di quattordici fra i fondamentali album punk al mondo. Londra aveva i Clash, i Damned e i Sex Pistols, mentre a New York si diffondeva la musica innovativa e pionieristica di Johnny Thunders & The Heartbreakers e dei Ramones. E, ovviamente, mentre il punk diventava la colonna sonora di una generazione insoddisfatta, il suo look ne divenne l’uniforme. A Londra il punk era una ribellione di tipo classista: più l’abbigliamento era sfrontato, scioccante e inquietante, meglio era. A New York, invece, il movimento era incentrato sul minimalismo e su un rigido ascetismo. Prendete per esempio i Ramones, che indossavano i tipici blue jeans stretti di ispirazione americana, Tshirt bianche e giubbotti di pelle nera. Visto che la vera ribellione corrispondeva alla rigida adesione alla norma, ironicamente a New York non andava bene vestirsi diversamente uno dall’altro. Per le donne il punk rappresentò un periodo di grandissima liberazione: il pvc e l’armamentario sadomaso divennero la regola e il makeup mutò radicalmente passando dal glitter technicolor da discoteca a una lucida e feroce pittura nera di guerra, mentre i capelli erano corti ispirandosi a Sid Vicious e Debbie Juvenile. Nel frattempo, jeans stretti e cinghie bondage, collari, camicie strappate e spille di sicurezza imponevano agli uomini la rottura delle distinzioni di genere e delle regole sociali. «Il punk era molto eccitante. La musica era veloce e a tutto volume. I club erano piccoli, bui e impregnati di sudore e gli stessi punk erano pericolosi, o almeno questa era l’impressione che volevano dare», dice
Derek Ridgers, fotografo di quella scena e collaboratore di Gucci, che aggiunge: «E le ragazze, sul palco e fuori, erano soprattutto cattive ragazze. Cos’altro si poteva volere?». Il 1977 fu anche l’anno in cui uno stilista di moda fece sfilare il punk per la prima volta in passerella. “Conceptual Chic”, la collezione del debutto della designer inglese Zandra Rhodes, era composta da vestiti in jersey pesantemente decostruiti – ispirati a Schiaparelli e decorati con strappi nella stoffa, catene e spille di sicurezza – e sollevò non poche polemiche. «La ribellione era nell’aria e mi fece venire voglia di dare uno scossone alla situazione», ricorda Rhodes,
che aggiunge: «Nessun stilista di lusso cercava ispirazione per strada, mentre ora è la norma». Oggi è impossibile guardare alla moda senza vedere l’impronta lasciata dal punk. Rei Kawakubo (nota come la “madre della decostruzione”) lo cita da tempo come una delle sue principali fonti di ispirazione per Comme des Garçons. Kawakubo era una cliente abituale del negozio “Sex” di Vivienne Westwood a Londra insieme a Yohji Yamamoto e condivide da sempre affinità estetiche e ideologiche con la stilista inglese. Non stupisce quindi che tra le due esista da tempo grande rispetto reciproco e comunanza di opinioni. Westwood una volta disse a Kawakubo che la considerava una vera «punk nell’animo», mentre la stilista giapponese strizzava l’occhio alla Westwood dell’era di “Seditionaries” nella sua tanto pubblicizzata collezione “Destroy” del 1982 a Parigi. Ma andando oltre l’estetica dei giubbotti di pelle e della decostruzione, in realtà è l’atteggiamento fai-da-te del punk a riemergere ancora adesso fra i giovani stilisti di oggi. Con le loro T-shirt grafiche spesso un po’ anarchiche, le sfilate fuori programma e l’assenza di una formazione di tipo convenzionale, sono molti i new designers di streetwear che dicono di essere stati enormemente influenzati dall’ingenuità nichilista del movimento. «Ci sarà sempre qualcosa contro cui ribellarsi», dichiara Shane Gonzales, della label Midnight Studios con base a Los Angeles, che fra i propri fans annovera Ashton Sanders, Travi$ Scott e A$AP Rocky. «Lo spirito libero del punk è ciò che tiene viva la moda. Senza di esso, non avremmo nulla di nuovo ed eccitante. Non importa che genere di musica stia uscendo dagli altoparlanti, il punk ci dà comunque un’identità». E a Londra, lo stilista e beniamino della moda Charles Jeffrey – i cui modelli delicati e teatrali per il brand Loverboy riecheggiano gli entusiasmanti tempi d’oro dei ragazzi dei club di Londra – insiste sul fatto che oggi abbiamo bisogno del punk più che mai e invita all’azione dicendo: «Significa arrabbiarsi e usare la rabbia per fare qualcosa di buono. Vuol dire rifiutarsi di mangiare quello che ti viene propinato, creare qualcosa dal nulla, fare le cose da sé, esaltare gli outsiders». •