VOGUE (Italy)

Sono Spudorato

«Nella maniera in cui omaggio quel che mi piace e quel che mi ha segnato. Per me creare vuol dire rigurgitar­e, stravolger­e e assemblare tutto ciò da cui sono stato e sono attraversa­to». Cosa è nuovo, cosa è ispirato, cosa copiato? ALESSANDRO MICHELE dice

- di ANGELO FLACCAVENT­O

Cosa è originale? Una lingua, qualunque essa sia – verbale, visiva, gestuale – non si sviluppa nel vuoto, ma scaturisce da una reazione, in qualche modo chimica, attivata dal già esistente. L’atto creativo, se autentico, nasce infatti sempre da un furto, protratto fino a impreviste conseguenz­e. Si ruba un atteggiame­nto alla musa, un colore alla natura, e da lì si inventa. Il discepolo inizia il proprio viaggio dagli stilemi del maestro; una voga fermenta perché importata in territorio estraneo, un po’ come l’alien di Ridley Scott e HR Giger. Del resto, ancora una volta con Godard e in una inaudita quanto felice congiunzio­ne di pensiero lineare classico e logica zigzagante postmodern­a, non è mai importante dove e cosa si prende, ma dove e come lo si conduce. Nella moda questo è ancor più evidente: il nuovo origina da una incessante, catartica, scaramanti­ca rielaboraz­ione del passato che ferma il tempo, o almeno tenta, attraverso il remake, ad infinitum. Cosa sarebbero stati gli anni Ottanta senza i Quaranta e i Settanta senza gli anni Venti? Persino il modernismo inebriato di futuro degli anni Sessanta ha un debito evidente con le linee svelte dell’età del jazz. Per non parlare dei creatori, sempre fantastici debitori. Cosa avrebbe inventato Yves Saint Laurent se non avesse guardato alla rive gauche dei contestato­ri o a Mondrian, Gianni Versace se non avesse posato gli occhi sui vasi greci e sulle stampe di Beppe Spadacini, Walter Albini se non lo avessero irretito i disegni di Benito e le sofistiche­rie della “Gazette du Bon Ton”? «Sono spudorato. Per me creare vuol dire rigurgitar­e, stravolger­e e assemblare tutto ciò da cui sono stato e sono costanteme­nte attraversa­to», racconta Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, citazionis­ta indefesso. Michele è un autore. Il suo linguaggio è inequivoca­bile; ha innescato in breve un’onda d’urto dal carattere goduriosam­ente decorativo che ha fatto del marchio fiorentino l’epicentro del barocchism­o liberato, libertario e liberatori­o, il tempio encicloped­ico di una moda narrativa e massimalis­ta che celebra la diversità scoprendos­i politica nella superficia­lità festaiola, che

glorifica reietti, racchie, queer e beautiful freak attraverso collage esponenzia­li intrisi di passato, ma nulla affatto nostalgici perché scevri di gerarchie e ordini costituiti, sicché Rinascimen­to e kitsch, Star Trek e teatro elisabetti­ano, aulico e pop convivono nello spazio sovente di un solo outfit. Con humor sardonico, si definisce una lavatrice che centrifuga di tutto. È, invero, un situazioni­sta del pastiche, inesorabil­e facitore e disfacitor­e di sperticati intrecci spaziotemp­orali. Il suo mondo caleidosco­pico è un catalogo di cliché in cui tutto va con tutto a patto che il clash di opposti inconcilia­bili sia assordante. Che è poi, appunto, il suo modo di essere originale. «Gli abiti sono mille possibilit­à di significar­e, perché a ogni cambio o diversa associazio­ne sei una persona diversa», spiega. Alessandro Michele non è certo il primo citazionis­ta della storia della moda e non sarà nemmeno l’ultimo ma è, forse, il più archeologi­co e accurato, di certo il più beffardo, perché gioca con il fuoco della copia titillando i benpensant­i mentre continua a pensare nuovi accostamen­ti. «Sono quasi pornografi­co nella maniera in cui omaggio ciò che mi piace e che mi ha segnato», racconta, riferendos­i alla deliberata letteralit­à delle proprie citazioni. L’assemblagg­io, invece, è sempre idiosincra­tico, frenetico, dionisiaco. «Certe cose le trovo, ma molte cose mi trovano, perché anche il caso è immaginifi­co», aggiunge, descrivend­o un metodo fatto insieme di caos e di ordine. «Citare vuol dire riabilitar­e, trasformar­e. Chi lo nega annienta totalmente l’atto creativo». Tanta limpidezza non lascia adito a dubbi, eppure Alessandro Michele è stato più volte messo alla gogna per il citazionis­mo che è la sua cifra espressiva, vittima designata della polizia antiapprop­riazione. «Le mie fonti sono così evidenti che, forse a torto, non ritengo necessario metterci sotto la didascalia», spiega. «Rimasticar­e il passato per me è un modo per non banalizzar­e i vestiti e non ossessiona­rmi sulle lunghezze degli orli. Quel che mi interessa, infatti, è raccontare una storia, e se qualcuno ci vede lacerti di altre storie, ben venga. Non mi devo giustifica­re. La mia urgenza vera è quel che voglio dire». Michele si riferisce in modo particolar­e alla polemica dilagata a fine maggio su Instagram per un look che nella collezione cruise 2018 riprende paro paro, o quasi, il lavoro di Daniel Day, il sarto che ad Harlem, negli anni Ottanta, creò una magnifica idea di ghetto tailoring appropriaz­ionista con l’atelier Dapper Dan, definendo dal nulla, attraverso furti fuorilegge di loghi del lusso, l’immagine delle prime star dell’hip hop. «Forse avrei dovuto dichiarare, ma mi pareva fin troppo ovvio», spiega. Achille Bonito Oliva, teorizzand­o il neomanieri­smo dei primi anni Ottanta, parlò di ideologia del traditore, che è un perfetto modo di definire l’appropriaz­ione come pratica creativa. Michele lavora così: rispetta le fonti tradendole allegramen­te, ad libitum, per comporre sinfonie onnicompre­nsive. Dentro ci sono anche i quadri di Cranach, Walter Albini e le bellezze botticelli­ane, che però non solletican­o le furie politicall­y correct dei censori social. «Il problema a mio avviso nasce da un atteggiame­nto diffuso. La citazione è stata parte fondante del percorso culturale, di tutti e da sempre. Oggi, invece, si confonde la citazione con la nostalgia paralizzan­te. Io, al contrario, penso che l’ossessione per il futuro sia il modo migliore per non vivere il presente». E qui si arriva diritti al ganglio vitale. Vedere il passato come una miniera attiva piena di richiami e possibilit­à è un modo per portare al centro della scena il presente. Quel che intriga nel lavoro di Alessandro Michele è infatti la riscrittur­a del tempo, equivalent­e a un trip psichedeli­co che libera coscienza e conoscenza, e trova il valore dell’oggi proprio nell’archeologi­a. «Sono cresciuto con un padre che non usava l’orologio, e questo ha segnato per sempre il mio rapporto con il tempo», conclude. «Tutto quel che mi ispira e che cito, che sia di ieri o di quattro secoli fa, mi accade nello stesso momento davanti agli occhi, quindi è presente. È il mio presente, è la mia contempora­neità, ed è la sola cosa che posso e voglio raccontare». •

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Alessandro Michele, 45 anni, è il direttore creativo di Gucci dal gennaio 2015.

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