Cosa Fai Oggi?
A Venezia, l’invito a cena. Da allora sempre insieme. BARBARA RADICE racconta Ettore Sottsass. Con un libro ha dato ordine alla sua assenza, ora con una mostra rievoca le strade che ha aperto.
«Cristina, va bene allora. Ci vediamo il 14 settembre per festeggiare un po’ Ettore». Mi saluta così Barbara Radice a conclusione di questa intervista. È stato per lei un anno intenso, che l’ha vista impegnata su due fronti. Il primo è l’uscita delle sue memorie dopo la scomparsa di Ettore Sottsass: quindici quaderni scritti a partire dal 1o gennaio 2008 («il primo giorno che lui non c’è»), diventati un volume dal titolo tagliente come una lama affilata, “Perché morte non ci separi”, edito da Mondadori Electa. Il secondo, la preparazione della mostra alla Triennale di Milano – esposizione che solo lei poteva curare – intitolata “There Is a Planet” (inaugurazione appunto il 14/9, fino all’11/3/2018), che in nove sezioni ripercorre il lavoro dell’autore fino al 2007. Il progetto dell’allestimento è di Michele De Lucchi e Christoph Radl, amici di lunga data di Barbara ed Ettore. Hai conosciuto Sottsass in occasione della Biennale di Venezia, sul vaporetto, era il 1976. La prima cosa che ti ha detto? Sul vaporetto, ricordo l’invito a cena. Ero perplessa perché quasi non lo conoscevo. Deve essersene accorto
perché prima di salutarmi, al Giglio, ha aggiunto: «Sono al Monaco, ti aspetto». E io sono andata. “Perché morte non ci separi” è un tuo libro che racconta della straordinaria relazione condivisa con un uomo speciale. Dici di aver «voluto dare ordine alle emozioni», una frase enorme. Quando hai cominciato a scrivere «per non dimenticare», avevi già pensato a un libro? Dare ordine alle emozioni vuole forse dire metterle in fila, una prima l’altra dopo, ascoltarle. Quando ho iniziato a scrivere avevo paura, paura e basta. Era il soffocamento del vuoto, l’enormità metafisica dell’assenza. Non pensavo a nessun libro. Ma mi sembra che già un paio di mesi più tardi ho scritto, ed è nel libro stesso, di avere deciso il titolo. Dici che «lui c’è in un modo nuovo, inattuale». Come descrivi oggi, a 10 anni dal 2007, questa dimensione di vita? Non vorrei “descriverla”. Io vivo con Ettore, senza di lui, ma con lui. Questo legame è parte della vita. La vita è sempre bella, ma ho imparato che è anche un “agguato”. Il vuoto, per esempio, è un agguato, è suspense. Bisogna allora imparare la pazienza e l’ascolto. Se penso a voi, l’ultima parola che mi viene in mente è quotidianità. C’era un’abitudine, un rituale appena svegli, che si ripeteva nel tempo? Dunque, la mattina ci salutavamo con le mani, un abbraccio. Poi la solita routine: bagno, colazione, denti. «Cosa fai oggi? Più tardi?», Ettore non amava nessuna routine, tranne forse quella di ritrovarci all’ora di pranzo. Abbiamo sempre mangiato insieme. Dopo il nostro incontro mi portava anche ai pranzi di lavoro. In un’intervista con l’architetto Davide Vargas, Sottsass dice: «Come mi prendo cura di me? Intanto vivo con Barbara Radice che mi cura dalla mattina alla sera come se fossi un bambino, cucinando cose molto buone e molto sane, poi facendomi fare dei check due-tre volte l’anno. Poi mi curo soprattutto non pensando alle malattie». Come affrontavate i momenti difficili? Li affrontavamo percorrendo la strada indicata dalle stesse difficoltà. «Andiamo avanti», diceva Ettore. Un giorno, era domenica, mangiavamo nel ristorante cinese sotto casa. Era un momento faticoso e lui ha detto: «Quello che non dobbiamo mai fare, ma proprio mai, è perdere la nostra felicità. Perché la vita deve essere bella». Anche il ristorante si chiamava La Felicità. Quella raccomandazione, all’apparenza strana e quasi banale, mi ha molto aiutata. Ettore ha parlato più volte di malinconia, nostalgia. Che cosa significavano per lui queste parole, e cosa significano per te? «La vecchiaia è nostalgia», diceva Ettore, «nostalgia della vita». Ma secondo me è soprattutto nostalgia della forza. La nostalgia non è soltanto della vecchiaia. C’è subito, anche da giovani, da ragazzi. Io, per esempio, ho sempre avuto una certa nostalgia del futuro, di raggiungere tutto subito, tutto insieme, e nostalgia anche di quello che non si arriva a conoscere o vedere. Credo che Ettore con la sua ossessione fotografica cercasse di afferrare “la polvere d’oro” della vita. Penso alle sue belle lettere, alle righe a piede dei disegni, alle frasi. Qual è la dedica più significativa che ti ha fatto? È l’ultima, del 29 novembre 2007, il giorno del mio compleanno: «Un misterioso molto speciale abbraccio – per sempre – da Ettore a Barbara». Tu ed Ettore eravate spesso accompagnati dalla sua Leica. Guardare oltre le cose sembra una coordinata importante per voi. Non credo che Ettore volesse guardare oltre le cose. Voleva anzi appiccicarsi a quel cinquecentesimo di secondo del clic della macchina fotografica, perché non andasse perduto, arrestarlo anche per poco. L’11 dicembre 1980 a casa tua nasce Memphis. Qual è la sua più grande vittoria? Gli oggetti parlano a noi attraverso i sensi. Ettore parlava di sensorialità: forma, colore, trama, liscio, ruvido, opaco, lucido, ortogonale, asimmetrico, cultura del centro, cultura della periferia, prezioso, povero, standard. E riguardo a Memphis, non parlerei di vittorie. Memphis ha aggiornato il linguaggio dell’architettura e del design. Ha aperto strade. Quello voleva fare e ha fatto. Poi ognuno prende la strada che vuole. •