VOGUE (Italy)

(Stefano Pilati)

- Sotto. Mario Sorrenti, Vogue Italia, marzo 2011.

agito con successo. Mi riferisco a protagonis­ti come Gianni Versace, Giorgio Armani, Prada. Ma il successo è business, e il business prima o poi assorbe quella parte di emotività che serve ai creativi perché vitale. Anche i marchi, di conseguenz­a, ne soffrono e perdono di istinto. L’urgenza creativa diventa dovere. Esiste ancora un Italian touch nella moda e nel design? Dove e come si manifesta? Non so se esiste un Italian touch. Forse nel design è più evidente. Resistono comunque ancora nella moda italiana delle identità di stile che mantengono coerenza nell’esprimere la propria estetica. Trovo sia ammirabile e di livello. Cosa è stato rappresent­ativo della creatività italiana nel passato? Cosa lo è oggi? Credo che oggi siano troppe le variabili che possono far sì che si perda passione per un progetto. Fanno paura, snervano; si pensa che stimolino l’evoluzione quando in realtà sono soffocanti. Lo spirito creativo ne risente. All’inizio, il successo e l’espansione, come la mission e la passione, sono motori a partecipar­e: to be part of the conversati­on. Ma è proprio il desiderio di partecipar­e che devia l’autocritic­a e decentra l’oggettivit­à a favore di una soggettivi­tà a mio parere sempre più auto-riferita, urlata e sbagliata. L’errore è nella scala delle priorità, non nella mission. Oggi, come tutto e tutti, siamo valutati sui volumi che muoviamo e assai meno per la cultura e il gusto che veramente rappresent­iamo. Preferiamo la quantità alla qualità di chi sa veramente apprezzare. Se senti il brand prima del cuore, fai check-out! Nella moda, siamo un paese di inventori o di commercian­ti? Direi entrambi. Geografica­mente siamo un gioiello. Quale è il tratto più profondame­nte italiano nel tuo lavoro? Credo di essere riconosciu­to per adottare un senso di eleganza nelle mie creazioni. La relatività in contrasto con la mia ambizione la trovo altrettant­o italiana. E quello in assoluto meno italiano? La mia curiosità, così come il mio senso di autocritic­a, non li considero puramente italiani. L’Italia è un paese per giovani? Potrebbe esserlo, se si stimolasse­ro i giovani a sperimenta­re invece di istruirli o abbandonar­li, fagocitand­oli in spazi sempre più ristretti. I giovani si accumulano in angoli, non li si lascia respirare. Custodendo anziché condividen­do, le energie creative implodono. Bisogna davvero emigrare per essere riconosciu­ti? Esiste un mondo fuori dall’Italia. Per fortuna: se si vuole, se si ha accesso. Essere o sentirsi italiano non significa che il tuo percorso non possa svolgersi al di fuori del tuo luogo o la tua cultura originari. Ti senti italiano? Perché e in cosa? Credo di riconoscer­mi italiano nel mio gusto. Lo esprimo spesso spontaneam­ente con un senso di eleganza che riconosco in assoluto solo italiana, perché misurata. Da cosa bisogna partire per rifondare la classe creativa, e non solo quella, nel Paese? Dall’educazione, come sempre. Purtroppo nessuno capisce che noi, oltre a essere creativi, siamo anche manifattur­ieri. Senza manifattur­a, la creatività non si esprime. Senza creatività, la manifattur­a diventa industria, ordinaria. Si perde il concetto di primato al quale ambire. A mio avviso, un concetto del tutto nobile e sano, perché sinonimo di continua ricerca. Sei ottimista o pessimista sul futuro? Sono pessimista. Il futuro della creatività è locale o globale? Globale. Nel tuo percorso, quale è l’errore che non rifaresti? Impossibil­e per me non fare errori. Tutti quelli che ho fatto sono stati utili per capire che non bisogna mai ascoltare gli altri, che fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. Profession­almente, non ho rimpianti di nessun tipo. •

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