(Stefano Pilati)
agito con successo. Mi riferisco a protagonisti come Gianni Versace, Giorgio Armani, Prada. Ma il successo è business, e il business prima o poi assorbe quella parte di emotività che serve ai creativi perché vitale. Anche i marchi, di conseguenza, ne soffrono e perdono di istinto. L’urgenza creativa diventa dovere. Esiste ancora un Italian touch nella moda e nel design? Dove e come si manifesta? Non so se esiste un Italian touch. Forse nel design è più evidente. Resistono comunque ancora nella moda italiana delle identità di stile che mantengono coerenza nell’esprimere la propria estetica. Trovo sia ammirabile e di livello. Cosa è stato rappresentativo della creatività italiana nel passato? Cosa lo è oggi? Credo che oggi siano troppe le variabili che possono far sì che si perda passione per un progetto. Fanno paura, snervano; si pensa che stimolino l’evoluzione quando in realtà sono soffocanti. Lo spirito creativo ne risente. All’inizio, il successo e l’espansione, come la mission e la passione, sono motori a partecipare: to be part of the conversation. Ma è proprio il desiderio di partecipare che devia l’autocritica e decentra l’oggettività a favore di una soggettività a mio parere sempre più auto-riferita, urlata e sbagliata. L’errore è nella scala delle priorità, non nella mission. Oggi, come tutto e tutti, siamo valutati sui volumi che muoviamo e assai meno per la cultura e il gusto che veramente rappresentiamo. Preferiamo la quantità alla qualità di chi sa veramente apprezzare. Se senti il brand prima del cuore, fai check-out! Nella moda, siamo un paese di inventori o di commercianti? Direi entrambi. Geograficamente siamo un gioiello. Quale è il tratto più profondamente italiano nel tuo lavoro? Credo di essere riconosciuto per adottare un senso di eleganza nelle mie creazioni. La relatività in contrasto con la mia ambizione la trovo altrettanto italiana. E quello in assoluto meno italiano? La mia curiosità, così come il mio senso di autocritica, non li considero puramente italiani. L’Italia è un paese per giovani? Potrebbe esserlo, se si stimolassero i giovani a sperimentare invece di istruirli o abbandonarli, fagocitandoli in spazi sempre più ristretti. I giovani si accumulano in angoli, non li si lascia respirare. Custodendo anziché condividendo, le energie creative implodono. Bisogna davvero emigrare per essere riconosciuti? Esiste un mondo fuori dall’Italia. Per fortuna: se si vuole, se si ha accesso. Essere o sentirsi italiano non significa che il tuo percorso non possa svolgersi al di fuori del tuo luogo o la tua cultura originari. Ti senti italiano? Perché e in cosa? Credo di riconoscermi italiano nel mio gusto. Lo esprimo spesso spontaneamente con un senso di eleganza che riconosco in assoluto solo italiana, perché misurata. Da cosa bisogna partire per rifondare la classe creativa, e non solo quella, nel Paese? Dall’educazione, come sempre. Purtroppo nessuno capisce che noi, oltre a essere creativi, siamo anche manifatturieri. Senza manifattura, la creatività non si esprime. Senza creatività, la manifattura diventa industria, ordinaria. Si perde il concetto di primato al quale ambire. A mio avviso, un concetto del tutto nobile e sano, perché sinonimo di continua ricerca. Sei ottimista o pessimista sul futuro? Sono pessimista. Il futuro della creatività è locale o globale? Globale. Nel tuo percorso, quale è l’errore che non rifaresti? Impossibile per me non fare errori. Tutti quelli che ho fatto sono stati utili per capire che non bisogna mai ascoltare gli altri, che fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. Professionalmente, non ho rimpianti di nessun tipo. •