Le Ore, I Giorni
Quelli passati assieme a suo padre, LORD SNOWDON, di recente scomparso: che l’autrice ricorda per Vogue Italia con queste indimenticabili immagini.
Sto scrivendo questo articolo seduta sul pavimento della cucina di mio padre, dove prima c’era il tavolo. Papà se n’è andato qualche mese fa e stiamo svuotando la casa. I quadri appesi per 40 anni hanno lasciato l’impronta sulle pareti, gli orologi a muro sono stati staccati, non ci sono bicchieri nella credenza né vino in frigorifero. Un’era è finita. È la casa dove sono cresciuta e la rivedo in ogni dettaglio. In stile vittoriano, è disposta su due piani. Al piano terra c’erano lo studio di mio padre, la dark room, e quella che tutti chiamavamo “canteen”. In realtà era un vano molto piccolo, dove prima delle sessioni fotografiche ci si poteva truccare, seduti a una vecchia specchiera, come si vede in una foto con Dame Helen Mirren. Al piano superiore si trovavano la stanza dei miei genitori e quella degli ospiti, che spesso mio padre utilizzava per le sue sessioni fotografiche: su quel letto stile impero hanno posato lo scrittore Edward Albee e l’attore Ian Holm. Sì, perché non c’è stanza o angolo della casa che mio padre non abbia sfruttato per qualche scatto. Qualcuno
venne ritratto seduto sulle scale: ricordo l’attore Ben Whishaw, con quella faccia incredibile. Anche la mia camera diventava un set: era perfettamente circolare, trovandosi nella torretta. I miei genitori l’avevano dotata di una scala a pioli, perché potessi fuggire attraverso il balcone in caso di necessità – un’evenienza teoricamente romantica. L’arredamento di casa era un mix and match divertente tra mobili del XIX secolo ereditati e altri moderni, funzionali, ma a darle carattere erano soprattutto i pezzi ricevuti in cambio di una fotografia: un quadro da un artista, per esempio. Quando mio padre fotografava qualcuno l’atmosfera era elettrica: doveva sempre esserci silenzio assoluto. Quando la photo session finiva si diffondeva un brusio, segnale di invito a scendere al piano di sotto per conoscere il soggetto, mentre si guardavano le polaroid. Poi tutti venivano invitati qui, in cucina, per un pranzo. Ci si sedeva intorno a un tavolo di legno molto semplice, su seggioline sottili, che si ritrovano in molte foto di mio padre: ci sta bene la fashion designer Isabella Blow, con il suo cappello flamboyant, accentuato dal bianco e nero della stampa. Nell’appartamento dove vivo ora con mio marito e i nostri tre bambini sono riuscita a portare quelle sedie, ma il gusto della nostra casa no: impossibile riprodurlo. Quando due persone vanno a vivere insieme l’incontro di storie diverse produce altri effetti. La finestra di quella cucina dalla quale è stato ritratto Rupert Everett, giovane e bellissimo, si affaccia sul giardino. È completamente verde, tranne per una camelia rosa e una fucsia, che a mio padre piacevano molto: gli ricordavano le silhouettes delle ballerine. Ma nessun altro fiore era ammesso: i colori potevano distrarre la concentrazione delle sessioni fotografiche. Perché il giardino era un fondale per molte foto: ancora Rupert Everett nascosto tra l’edera o Rachel Weisz tranquillamente seduta sulla fontana, oggetto di tanti scherzi. Ricordo che qualcuno infilò nella bocca del mascherone una bottiglia di vino, e non sembrava più acqua quella che sgorgava. Sarà stato durante uno dei nostri memorabili party.
«Sono grata a mio padre per il tempo trascorso a passare in rassegna album e scatole di polaroid. Con un milione di domande e un bicchiere di Bloody Mary in mano. Che bevo oggi per lui».
Sono stata allevata in questa casa, dove mi è stato insegnato ad ascoltare e osservare, ma soprattutto a porre domande. Certo, a volte ero un po’ confusa quando rincasando trovavo David Bowie in piedi su un cippo in giardino! Negli anni osservavo come mio padre affrontava il suo lavoro, sempre concentrato: per la realizzazione di una foto si documentava minuziosamente su tutto ciò che riguardava il suo soggetto. Nella foto con Julian e Jacqueline Schnabel, per esempio, il drappo sul fondo citava l’opera dell’artista. Mio padre era preciso e pignolo in tutto: poteva scrivere centinaia di lettere ai responsabili di un edificio inaccessibile ai disabili o magari passare ore con gli studenti del Royal College of Art, di cui fu preside. Quando ho iniziato a pensare di realizzare un libro su di lui ho voluto includere vari aspetti del suo lavoro e della sua vita attraverso storie rievocate da chi l’aveva incontrato. Ho inserito un saggio sui suoi esordi a “Vogue Uk”: è stato emozionante trovare nell’archivio le lettere del direttore di allora, Audrey Withers. C’è poi un articolo sul suo contributo alla scena culturale della Londra negli anni 60, un testo sul suo libro “Private View” dedicato agli artisti britannici, e il primo matrimonio con la principessa Margaret. Sandy Nairne, ex direttore della National Gallery, scrive invece dei suoi ritratti, parola che mio padre odiava perché la riteneva troppo pomposa. Ci sono tributi e saggi sui suoi progetti architettonici, come lo Snowdon Aviary del London Zoo progettato con Frank Newby o il Cedric Price. È ricordato il suo lavoro documentaristico e cinematografico e c’è anche “Tony’s Twinkle”, un articolo divertente scritto da Tom Ford sul suo stile e abbigliamento. Se dovessi pubblicare un libro ora che mio padre non c’è più, avrebbe toni di rimpianto e sarebbe pieno di domande mai poste. Il libro che ho curato con lui nei suoi ultimi anni di vita è invece pervaso dalla sua voce, dal suo fascino, dal suo humour, dalla sua ostinata determinazione e dal suo punto di vista su una vita straordinaria. Gli sono molto grata per le ore, i giorni, gli anni trascorsi a passare in rassegna album, scatoloni di polaroid, lettere e fotografie, con un blocco per appunti e un milione di domande. Sempre dilettati da un Bloody Mary, che bevo oggi per lui. Mi manca ogni giorno e spero che questo libro possa essere il mio tributo a lui. Sicuramente è stato fatto con molto amore. •