VOGUE (Italy)

io che so tenere un segreto,

- — di RAFFAELE PANIZZA foto di ETHAN JAMES GREEN styling PATTI WILSON

di Raffaele Panizza, photos by Ethan James Green, styling by Patti Wilson

Crescere donna in un corpo da uomo nel New Jersey anni 70, diventare la prima modella trans e non dirlo a nessuno, poi perdere tutto, poi rinascere ancora: l’incredibil­e storia di Tracey Norman.

Tracey Norman è così riservata, pura, disincanta­ta, umile, ferita, speranzosa e cieca, che neppure s’era accorta d’avere una storia incredibil­e da raccontare: «Un libro sulla mia vita? Non so… crede che avrei potuto?». Come se non fosse nulla crescere nel New Jersey a metà degli anni 70, essere una transessua­le di colore infiltrata nel mondo della moda senza che nessuno per anni se ne sia mai accorto. E finire poi, con gli zigomi da donna e i cromosomi da uomo, sulla confezione di una famosa lozione di bellezza per signore, ingannando tutti. E poi radiata, dimenticat­a, sbattuta senza soldi sull’orlo della decisione più tragica, per un soffio evitata: «Prostituir­mi per vivere», dice. E ancora riscoperta e ora corteg- giata. La sua vita gigante la comprende adesso, dalla sua casa al di là dell’Hudson River, dove a 66 anni vive da sola. Quasi stupita di fronte al produttore statuniten­se che ha giurato di inviarle una squadra di sceneggiat­ori in salotto, per lunghe confession­i destinate a diventare un film. «Dovrò parlare di quel medico dell’Upper Est Side che faceva punture sottobanco d’ormoni a tutti i trans della città», racconta. «Tra i frequentat­ori del Third World e dell’Up the Down Stairs, era leggendari­o». Incredula di fronte alla casa automobili­stica Lexus che l’ha ingaggiata per uno spot, al brand di cosmetici Clairol che le ha fatto firmare un contratto triennale. Tracey Norman, nota anche come Tracey Africa nel giro

Arrivano i cataloghi, i servizi e le campagne. Lui in mezzo a mille lei, nelle sale d’aspetto e nei bagni, sempre attenta a mascherare la sua identità anatomica: «Il nastro adesivo americano divenne il mio compagno più fedele», ricorda. «Nessuno si era accorto di nulla».

delle feste drag queen, è stata la prima modella transgende­r della storia. Lineamenti delicati, corpo slanciato, caviglie dolci, pelle morbida. S’è sempre sentita donna, nel suo cuore, e il testostero­ne con lei è stato gentile. Tutti le ripetevano che con quel fisico avrebbe dovuto sfilare, e lei aveva preso il suggerimen­to sul serio. «Un amico, Al Grundy, lavorava come make-up artist e sapeva dove si tenevano le sfilate in città», racconta, «fingevo di essere una studentess­a ed entravo, per spiare il modo in cui le modelle camminavan­o». Una mattina del 1975 era diretta verso un défilé organizzat­o nella hall del Pierre Hotel, quando vide un gruppo di ragazze nere, bellissime, in fila davanti a un portone. «La mia mente diceva: mettiti in coda. E così ho fatto». Il giorno successivo, arriva la telefonata di conferma: due giorni di shooting per Vogue Italia, con un compenso di tremila dollari, più soldi di quanti ne avesse mai visti prima. E il coraggio, al telefono, di chiedere chi fossero quei signori così gentili da averla scelta: «Si trattava di Luciano Soprani, designer di Basile, e del fotografo Irving Penn. Una collezione dedicata all’Africa, e ispirata da un safari». A fine shooting, Irving prende Tracey sotto la sua ala e la presenta a Zoltan “Zoli” Rendessy, un ex designer ungherese che aveva aperto una piccola ma influente agenzia a New York: specializz­ata all’inizio in modelli di colore, a metà degli anni 70 era arrivata a curare gli interessi anche di personaggi di culto come Veruschka, Angelita e Pat Cleveland. «Iniziarono a propormi come la versione più giovane di Beverly Johnson, la prima afroameric­ana a comparire nel 1974 sulla copertina di Vogue». Arrivano i cataloghi, i servizi e le campagne. Lui in mezzo a mille lei, nelle sale d’aspetto e nei bagni, sempre attenta a mascherare la sua identità anatomica: «Il nastro adesivo americano divenne il mio compagno più fedele», racconta, «e poi tanti altri trucchetti sui quali preferirei soprassede­re. Nessuno, comunque, si era accorto di nulla». Nessuno, o quasi: anni più tardi la modella Peggy Dillard, che aveva fatto la deejay a New York nella discoteca gay del fratello, racconterà al magazine “New York”: «L’avevo capito: nelle sue mani c’era qualcosa di inequivoca­bilmente mascolino. Ma scelsi di mantenere il segreto: dal mio punto di vista, era bellissima». Nata a Newark nel 1951, Tracey ricorda i conflitti tra i suoi genitori sul tema della sua marcata effeminate­zza. Mamma accettava. Papà, che lavorava in un macello comunale, si diceva convinto di poterla convertire, iniettando­le il sangue dei maschi come si deve, tipo James Brown e Muhammad Ali: «Comprò dei guantoni da box, e insisteva perché combattess­imo». Sotto il peso di quelle tensioni i genitori si separano, finché il padre scompare dalla sua vita. Circostanz­a che solleva Tracey dall’adesione a un modello irraggiung­ibile: «Avevo solo amiche, che mi insegnavan­o a camminare come una donna, a truccarmi. Mi tenevano protetta, e per fortuna, a parte qualche epiteto, di bullismo non sono mai stata vittima». Di violenza sessuale sì però, quando aveva cinque anni, molestata da un adolescent­e che viveva nello stesso palazzo: «La cosa che mi ferì di più non fu l’abuso in sé, quanto il fatto che permettess­e a un suo amico di spiarci, chiuso nell’armadio: per me, era una cosa privata e personale». La palpano con brama e la chiamano “frocio”, insulto che già in tenera età non la toccava: «Per come la vedevo io, ero femmina e perfettame­nte eterosessu­ale», scherza Tracey, che dall’amore, nella vita, ha avuto poco: «Una sola storia importante finita male, per colpa della droga, che l’aveva reso irrispetto­so». Anche la sua avventura nella moda finirà presto e male. Un giorno del 1980, un assistente dell’hairdresse­r Andre Douglas decide di spifferare la verità alla direttrice del magazine “Essence”. Le foto vengono cestinate, la voce si sparge, la carriera di Tracey è finita. «Scappai in Italia e poi a Parigi, in cerca di ingaggi. Sfilai per sei mesi nell’atelier di Balenciaga, ma qualcosa s’era rotto per sempre». Seguono anni di depression­e, i concorsi di bellezza per drag queen per guadagnare qualche dollaro, gli ingaggi come ballerina in un peep-show burlesque di Times Square. Finché nel 2015 il “New York Magazine” racconta la sua storia, e celebrity transgende­r come Lea T e Laverne Cox la descrivono come la loro musa, e il destino di Tracey ricomincia a girare. Ora attende che la vita la rimborsi, placida, coi cerottini di ormoni da indossare ogni tanto, per far girare la testa agli uomini per strada. «L’unico rammarico è non aver mai avuto abbastanza soldi per completare la transizion­e», dice. «La mia vita sembra un film, vero. Ma il finale che sognavo rimarrà incompleto per sempre». •

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Per Tracey Norman. Cappotto di broccato e abito di pizzo DOLCE & GABBANA. Per Renauld White. Completo GIORGIO ARMANI. In apertura. Abito di paillettes con frange MICHAEL KORS COLLECTION. Hair Ward @ The Wall Group. Hair pieces Helena Collection....

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