La Storia
Il paradiso trovato di UMBERTO PASTI è un nulla nel Marocco agreste grandioso. Un mondo innocente eppure durissimo. Che lo scrittore racconta in un memoir.
IL GIARDINO È SOLO UN PORTO, DI FRANCESCA MOLTENI, RITRATTO
Come l’Ulisse del poeta Umberto Saba – «Oggi il mio regno è quella terra di nessuno» –, anche Umberto Pasti si è spinto oltre le Colonne d’Ercole, e ha costruito con tenacia il suo regno in una terra dove nessuno osa avventurarsi, perché ancora piena di pericoli. L’Arcadia ritrovata è Rohuna, un nulla nel Marocco agreste grandioso, a 60 chilometri da Tangeri. È lì che si è perduto in paradiso lo scrittore giardiniere botanico collezionista. Lo racconta nel romanzo omonimo, “Perduto in Paradiso”, che Bompiani pubblica il 21 di questo mese. «È il resoconto fedele della mia avventura, iniziata 18 anni fa mentre passeggiavo sulla spiaggia», racconta. «Salendo lungo il fiume, ho attraversato le dune rosa, la pietraia, i campi di segale e di grano bruciati, arrancando per ore tra pietre roventi. Mi sono addormentato sotto un fico, e al risveglio ho deciso di vivere lì. Io, borghesuccio, ho scelto quella valle per la sua bellezza sovrumana. Non c’era essere umano, un luogo biblico». È la patria ritrovata, Rohuna, luogo di visioni e di sogni, di leocorni e centauri. Dodici estati
e qualche inverno passati a Tangeri non gli erano serviti a conoscere il Marocco. Gli iris, la medina, e poco più. Era il tempo di una catarsi. «Nulla, nella mia vita, mi aveva preparato a questa trasformazione terribile», scrive. «Me al largo sospinge ancora il non domato spirito», dice l’Ulisse di Saba. «Ho capito che dovevo costruire qui, prima una capanna e poi il mio giardino, per salvare le piante selvatiche che ho visto sparire dal nord del Marocco, un gigantesco cantiere di ruspe e hotel in costruzione. Un’Arca di Noè, per me e per i bambini di domani». Non ci sono acqua né luce sulla collina. Anzi, una piccola sorgente c’è, dove nuotano sparuti girini. È da lì che tutto comincia, «filtrandola con un fazzoletto, potevo berla». Possibilità di vita, nutrimento. Ma è un luogo così isolato, all’epoca, che per alcuni autoctoni è il primo contatto con l’uomo bianco, qui dove regna un Islam antico, animista, berbero. Con l’aiuto di due giovani, Charqaui – che abita nel villaggio vicino – e il suo amico Rachid, ha inizio la lunga trattativa per comprare la terra che appartiene a più di 20 proprietari. «Pensavano che fossi un trafficante di droga, o un pazzo. Poi hanno capito che sono solo un giardiniere, capace di sopportare fatiche fisiche enormi, di camminare nel gelo per ore, per salvare un bulbo». È una traversata del deserto, per scoprire i propri limiti ma anche per conoscere nuove dimensioni dello spirito e fratellanze. «La cosa più bella è stata trovare l’intimità nell’isolamento, sentirmi un uomo in mezzo ad altri uomini. Ho l’unico camino del villaggio, e a volte dormono tutti lì, raccontandosi storie». Così anche Umberto comincia a coltivare le piante, inventandosi storie. Il giardino inglese, portoghese o italiano sono pretesti per far conoscere la cultura occidentale. «“Hai la sindrome di Cleopatra”, mi diceva il mio compagno Stephan, e in un certo senso è vero, a volte mi sembrava di essere Fitzcarraldo», continua, ricordando che in certi momenti ci sono state quasi mille persone ad aiutarlo. Tutto è fatto senza macchine, dai locali, con competenze autoctone, per coltivare il terreno che oggi si estende per oltre cinque ettari. I giovani che volevano emigrare adesso realizzano mobili nel laboratorio di falegnameria, sul modello dei “rustic furniture” inglesi. Le ragazze, invece, hanno imparato dalle nonne a creare giocattoli con le proprie mani: camion di zinco e sterco di vacca, pupazzi di legno. «Dopo aver portato l’acqua nelle case, vorrei aiutarli a costruire una scuola e un museo del giocattolo, dare a questi ragazzi l’orgoglio della loro identità». Certo, poi sono arrivati i botanici inglesi, gli ospiti internazionali, gli studiosi in visita. Ma il giardino è solo un porto, non è il viaggio. «Volevo celebrare un mondo perduto, rurale. Un mondo innocente, ma durissimo». Non è un paradiso perduto. Oggi, se il regno di Umberto Pasti esiste è grazie a loro, i ragazzi di Rohuna, che lo mostrano con orgoglio ai forestieri.
«Mi sono addormentato sotto un fico, e al risveglio ho deciso di vivere lì. Io, borghesuccio, ho scelto quella valle per la sua sovrumana bellezza».