SIAMO SOLO NOI,
Moda, arte, cibo? Che cos’è questo fenomeno unico, l’italianità, di cui ancora oggi il mondo non può fare a meno? Prova a rispondere una mostra a Milano.
Italianità: un’idea della quale il mondo intero sembra non poter fare a meno. Perché? Stefano Tonchi, curatore assieme a Maria Luisa Frisa della mostra “Italiana. L’Italia vista dalla moda 1971-2001” (a Palazzo Reale dal 22 di questo mese), risponde chiedendoselo a sua volta.
Forse è una questione subliminale che appartiene all’inconscio del mondo, attratto da sempre da quel valore aggiunto che è la bellezza dell’ambiente. Parti dal paesaggio, attraversi l’arte e l’architettura, passi dal cibo e arrivi alla moda. Vai da Eataly e parli di formaggio e soprassata, che non sono una borsa di Gucci o un vestito di Armani, ma quando chiudi gli occhi diventano quella cosa unica chiamata Italia. Pensiamo a Versace: uno stilista tecnologico, che ha fatto sognare il mondo sovrapponendo la sperimentazione ad antichità e Rinascimento».
Raccontate trent’anni di storia: un orizzonte lungo.
Avevamo iniziato con “Bellissima”, che è stato un po’ il prologo di “Italiana”: perché lì si parlava di alta moda, ma è il pret-à-porter che ha lanciato la nostra moda nel mondo. “Italiana” è un punto di vista, uno dei tanti possibili, che analizza questo fenomeno unico, la nascita del made in Italy.
Come nei film ci sarà allora un sequel, “Italiana 2”, “Italiana colpisce ancora”...
Non esageriamo. Di certo però si possono fare tante mostre anche più specifiche. Questa è il frutto di uno sguardo soggettivo, fatto di alcune scelte personali e altre legate all’attualità. Come dice Maria Luisa Frisa, è uno sguardo militante che vuole difendere il made in Italy ma anche criticarlo, trovandogli un posto che non sia né da vincente né da perdente.
Una critica in particolare al made in Italy di oggi?
Certo, una critica a quella “politica” della moda italiana che non c’è mai stata. La situazione attuale la descriveva bene Vanessa Friedman in un articolo sul “New York Times” dello scorso settembre: nelle sfilate a Milano anziché proposte o risposte si vedono prodotti molto ben fatti e molte scollature.
Come difendete le ragioni del made in Italy?
Più che difendere, si tratta di mettere in evidenza un fenomeno eccezionale e unico al mondo, nato nella particolare struttura del sistema industriale che l’Italia ha avuto dal dopoguerra in poi, fatto di aziende spesso familiari che sono state capaci di adattarsi ai cambiamenti di una società in cui la donna da casalinga diventa impiegata e l’uomo da padre di famiglia modaiolo, disposto a spendere sulla propria immagine più che a investire sul futuro. Tutto questo ha favorito la nostra moda. Circostanze simili non si sono verificate in Francia, per esempio, dove gli investimenti nel dopoguerra sono andati principalmente all’industria pesante.
“Italiana” è un titolo apparentemente molto generico.
È un aggettivo che diventa sostantivo, all’americana. Ma non è una mostra tuttologa né cronologica. Ci sono nove stanze non tematiche, con pezzi di arte, design e moda in conversazione. Nella stanza “Unisex” gli specchi di Pistoletto suggeriscono un soggetto che si innamora della sua immagine. Altri momenti sono più evocativi, come la ricostruzione del Diorama dello studio Alchimia che era sulla copertina di “Domus” nei 70, o l’allestimento che mostra il carattere rivoluzionario del rapporto fra oggetti e abiti nel lavoro di Cinzia Ruggeri.
Certe industrie italiane hanno la capacità di esprimersi attraverso diverse figure professionali…
Esistono le industrie con il loro prodotto, che poi si affidano agli “stilisti” non per creare o inventare, ma per dare uno stile unico al prodotto stesso. Pensiamo a Walter Albini. O ad Armani, che inizia con il dare uno stile a Cerruti, agli impermeabili di Allegri o ai cappotti di
Hilton prima di diventare quello che è. È un fenomeno che non esiste altrove, ed è molto complicato spiegare a un non italiano cosa sia uno “stilista”. È intraducibile, “stylist” è tutta un’altra cosa. È una mostra rischiosa. Molto. Non si sa chi sarà contento e chi no. Ma la storia della moda in Italia non l’hanno fatta solo gli stilisti, ma anche le industrie tipo Genny, Callaghan, o figure particolari come Albini o Gigli. 1971? È una data simbolica: appunto l’anno della prima sfilata prêt-à-porter di Albini a Milano. 2001? Per l’11 settembre, sia per la dimensione della tragedia sia perché cambia molti equilibri sul mercato globale. I francesi iniziano a comprare le industrie italiane. Riconoscono il valore del brand prima di noi in un momento di debolezza della nostra economia. Cosa fanno gli italiani che gli altri non fanno nel periodo analizzato dall’esposizione? Anticipano il glocal, mischiano personale e locale, contaminano le collezioni con esperienze culturali e sociali. Versace con la Magna Grecia, Marras con la Sardegna, Prada con il conflitto fra borghesia milanese e realtà sociale e politica degli anni 70 e 80. Non ci sono designer stranieri che abbiano fatto lo stesso. Forse un po’ Lacroix, ma la maggior parte ha lavorato a tavolino, a livello intellettuale e sperimentale. Gli italiani riescono a tradurre le loro ispirazioni in modo molto commerciale. E poi, che cosa va storto? Alla metà dei 90 si è fatto di tutto per mettere l’Italia al centro del mondo, diluendo il nostro talento o esportandolo. In quegli anni per esempio non c’erano servizi fotografici fatti da un italiano. Dovevamo incoraggiare una cultura della moda italiana. In che modo? L’ossessione del prodotto, e magari della sua qualità, ha fatto dimenticare che la moda è anche ricerca di idee, esperimenti, filosofie e concetti che hanno una loro vita autonoma rispetto al prodotto. L’arroganza del saper fare ha dimenticato l’importanza di saper creare, attorno alla manualità, una intellettualità. Questo vale anche per altri campi, come l’arte o la letteratura italiana. Quale periodo più influisce nella percezione della moda italiana nel mondo? Gli anni 80. Quando esplode il potere dell’immagine Italia. Chi alla fine degli anni 70 aveva trovato un Paese nella morsa del terrorismo, dopo soli tre anni tornandovi trovava un paradiso del piacere e del bel vivere. L’Italia era passata dalla battaglia politica alle discoteche. La liberazione sessuale degli anni 60 ritorna nella dimensione radicalizzata, anarchica e apolitica della discoteca. La moda italiana veste questa transizione. Dalla discoteca al mondo. Una sezione della mostra, “Altrove”, racconta di quando tutti iniziano a viaggiare. E tornano con immagini da souvenir più che da ricerche antropologiche o culturali. Anche qui la moda italiana afferra l’attimo prima di altri e riesce a raccontarlo. C’è la democratizzazione del lusso. Esplode la logomania. Gli stilisti ampliano la loro visione trasformando gli oggetti che ci attorniano. Nasce il lifestyle, e nessuno riesce a dargli forma come le griffe italiane. Lo farà Ralph Lauren, ma molto più tardi. Che oggetti? Nell’ambito di “Museo della Moda”, una cinquantina di oggetti diventati degli status. La scarpa Tod’s, il calzolaio che abbraccia la tecnologia della gomma. Lo zaino Prada del 1978, anno di confine importantissimo. La borsa Naj-Oleari. I jeans stonewashed di Diesel, inventati dagli italiani. L’intrecciato di Bottega Veneta. Il cappotto
«Versace con la Magna Grecia, Marras con la Sardegna, Prada con il conflitto tra borghesia milanese e realtà sociale e politica degli anni 70 e 80. Gli italiani anticipano il glocal, mescolano personale e locale. Non ci sono designer stranieri che abbiano fatto lo stesso».
di Max Mara. La Baguette di Fendi. La felpa Best Company, prima felpa italiana ricamata, una cosa assurda e nuova. Come definiresti questi prodotti? Si passa dall’artigianato industriale all’industria con attenzione artigianale. Una figura sottovalutata di questo trentennio? Moschino. Fa il discorso sul postmoderno. Nella sua produzione c’è già tutto: il corpo, il potere assoluto della parola, del messaggio, della comunicazione. Le occasioni perdute? Non aver creato una generazione che concettualizzasse la moda. Dal 1985 è mancato il ricambio. Chi più ha rappresentato l’Italian Style, l’uomo o la donna? L’uomo è stato più innovativo. L’uomo-moda è un’invenzione italiana. La vanità italiana. La donna ha giocato su più tipologie. Dalla donna ipersessuata alla manager. Voi avete ribaltato il punto di vista: non sono società e cultura che guardano alla moda, ma la moda che guarda alla società. Volevamo dimostrare come l’industria italiana abbia rispecchiato i cambiamenti. Albini lo esprime molto bene vivendo l’atelier fuori dall’atelier, nelle fabbriche, non solo quelle vere ma anche e soprattutto in quelle delle idee. Un focus per ogni decennio. 70: liberazione. 80: discoteca ed eccesso. 90: il minimalismo internazionale e l’incontro con il mondo. L’italianità è ancora di moda? Decisamente sì. Ma funziona quando si aggiorna il contenuto nell’immaginario collettivo. Pensiamo ai film di Guadagnino. Non c’è niente di più italiano. Non mafia, non Papi, non Rinascimento. L’italianità che il mondo ama è quella del bel vivere, della borghesia. Chiudiamo con una citazione tratta dal libro “L’Italia della moda” di Silvia Giacomoni, del 1984: «Se non si affronta il problema dell’omosessualità, e del suo eterno giocare a nascondino con i travestimenti, non si capisce cosa è stata, finora, la moda». Sì, è un tema fondamentale per quegli anni. Versace era apertamente gay quando l’idea era quasi inaccettabile. Anche in questo la moda italiana di quel periodo è rivoluzionaria. Apre gli occhi a un Paese ancora retrogrado e bacchettone. •