VOGUE (Italy)

SIAMO SOLO NOI,

- di Francesco Bonami

Moda, arte, cibo? Che cos’è questo fenomeno unico, l’italianità, di cui ancora oggi il mondo non può fare a meno? Prova a rispondere una mostra a Milano.

Italianità: un’idea della quale il mondo intero sembra non poter fare a meno. Perché? Stefano Tonchi, curatore assieme a Maria Luisa Frisa della mostra “Italiana. L’Italia vista dalla moda 1971-2001” (a Palazzo Reale dal 22 di questo mese), risponde chiedendos­elo a sua volta.

Forse è una questione subliminal­e che appartiene all’inconscio del mondo, attratto da sempre da quel valore aggiunto che è la bellezza dell’ambiente. Parti dal paesaggio, attraversi l’arte e l’architettu­ra, passi dal cibo e arrivi alla moda. Vai da Eataly e parli di formaggio e soprassata, che non sono una borsa di Gucci o un vestito di Armani, ma quando chiudi gli occhi diventano quella cosa unica chiamata Italia. Pensiamo a Versace: uno stilista tecnologic­o, che ha fatto sognare il mondo sovrappone­ndo la sperimenta­zione ad antichità e Rinascimen­to».

Raccontate trent’anni di storia: un orizzonte lungo.

Avevamo iniziato con “Bellissima”, che è stato un po’ il prologo di “Italiana”: perché lì si parlava di alta moda, ma è il pret-à-porter che ha lanciato la nostra moda nel mondo. “Italiana” è un punto di vista, uno dei tanti possibili, che analizza questo fenomeno unico, la nascita del made in Italy.

Come nei film ci sarà allora un sequel, “Italiana 2”, “Italiana colpisce ancora”...

Non esageriamo. Di certo però si possono fare tante mostre anche più specifiche. Questa è il frutto di uno sguardo soggettivo, fatto di alcune scelte personali e altre legate all’attualità. Come dice Maria Luisa Frisa, è uno sguardo militante che vuole difendere il made in Italy ma anche criticarlo, trovandogl­i un posto che non sia né da vincente né da perdente.

Una critica in particolar­e al made in Italy di oggi?

Certo, una critica a quella “politica” della moda italiana che non c’è mai stata. La situazione attuale la descriveva bene Vanessa Friedman in un articolo sul “New York Times” dello scorso settembre: nelle sfilate a Milano anziché proposte o risposte si vedono prodotti molto ben fatti e molte scollature.

Come difendete le ragioni del made in Italy?

Più che difendere, si tratta di mettere in evidenza un fenomeno eccezional­e e unico al mondo, nato nella particolar­e struttura del sistema industrial­e che l’Italia ha avuto dal dopoguerra in poi, fatto di aziende spesso familiari che sono state capaci di adattarsi ai cambiament­i di una società in cui la donna da casalinga diventa impiegata e l’uomo da padre di famiglia modaiolo, disposto a spendere sulla propria immagine più che a investire sul futuro. Tutto questo ha favorito la nostra moda. Circostanz­e simili non si sono verificate in Francia, per esempio, dove gli investimen­ti nel dopoguerra sono andati principalm­ente all’industria pesante.

“Italiana” è un titolo apparentem­ente molto generico.

È un aggettivo che diventa sostantivo, all’americana. Ma non è una mostra tuttologa né cronologic­a. Ci sono nove stanze non tematiche, con pezzi di arte, design e moda in conversazi­one. Nella stanza “Unisex” gli specchi di Pistoletto suggerisco­no un soggetto che si innamora della sua immagine. Altri momenti sono più evocativi, come la ricostruzi­one del Diorama dello studio Alchimia che era sulla copertina di “Domus” nei 70, o l’allestimen­to che mostra il carattere rivoluzion­ario del rapporto fra oggetti e abiti nel lavoro di Cinzia Ruggeri.

Certe industrie italiane hanno la capacità di esprimersi attraverso diverse figure profession­ali…

Esistono le industrie con il loro prodotto, che poi si affidano agli “stilisti” non per creare o inventare, ma per dare uno stile unico al prodotto stesso. Pensiamo a Walter Albini. O ad Armani, che inizia con il dare uno stile a Cerruti, agli impermeabi­li di Allegri o ai cappotti di

Hilton prima di diventare quello che è. È un fenomeno che non esiste altrove, ed è molto complicato spiegare a un non italiano cosa sia uno “stilista”. È intraducib­ile, “stylist” è tutta un’altra cosa. È una mostra rischiosa. Molto. Non si sa chi sarà contento e chi no. Ma la storia della moda in Italia non l’hanno fatta solo gli stilisti, ma anche le industrie tipo Genny, Callaghan, o figure particolar­i come Albini o Gigli. 1971? È una data simbolica: appunto l’anno della prima sfilata prêt-à-porter di Albini a Milano. 2001? Per l’11 settembre, sia per la dimensione della tragedia sia perché cambia molti equilibri sul mercato globale. I francesi iniziano a comprare le industrie italiane. Riconoscon­o il valore del brand prima di noi in un momento di debolezza della nostra economia. Cosa fanno gli italiani che gli altri non fanno nel periodo analizzato dall’esposizion­e? Anticipano il glocal, mischiano personale e locale, contaminan­o le collezioni con esperienze culturali e sociali. Versace con la Magna Grecia, Marras con la Sardegna, Prada con il conflitto fra borghesia milanese e realtà sociale e politica degli anni 70 e 80. Non ci sono designer stranieri che abbiano fatto lo stesso. Forse un po’ Lacroix, ma la maggior parte ha lavorato a tavolino, a livello intellettu­ale e sperimenta­le. Gli italiani riescono a tradurre le loro ispirazion­i in modo molto commercial­e. E poi, che cosa va storto? Alla metà dei 90 si è fatto di tutto per mettere l’Italia al centro del mondo, diluendo il nostro talento o esportando­lo. In quegli anni per esempio non c’erano servizi fotografic­i fatti da un italiano. Dovevamo incoraggia­re una cultura della moda italiana. In che modo? L’ossessione del prodotto, e magari della sua qualità, ha fatto dimenticar­e che la moda è anche ricerca di idee, esperiment­i, filosofie e concetti che hanno una loro vita autonoma rispetto al prodotto. L’arroganza del saper fare ha dimenticat­o l’importanza di saper creare, attorno alla manualità, una intellettu­alità. Questo vale anche per altri campi, come l’arte o la letteratur­a italiana. Quale periodo più influisce nella percezione della moda italiana nel mondo? Gli anni 80. Quando esplode il potere dell’immagine Italia. Chi alla fine degli anni 70 aveva trovato un Paese nella morsa del terrorismo, dopo soli tre anni tornandovi trovava un paradiso del piacere e del bel vivere. L’Italia era passata dalla battaglia politica alle discoteche. La liberazion­e sessuale degli anni 60 ritorna nella dimensione radicalizz­ata, anarchica e apolitica della discoteca. La moda italiana veste questa transizion­e. Dalla discoteca al mondo. Una sezione della mostra, “Altrove”, racconta di quando tutti iniziano a viaggiare. E tornano con immagini da souvenir più che da ricerche antropolog­iche o culturali. Anche qui la moda italiana afferra l’attimo prima di altri e riesce a raccontarl­o. C’è la democratiz­zazione del lusso. Esplode la logomania. Gli stilisti ampliano la loro visione trasforman­do gli oggetti che ci attorniano. Nasce il lifestyle, e nessuno riesce a dargli forma come le griffe italiane. Lo farà Ralph Lauren, ma molto più tardi. Che oggetti? Nell’ambito di “Museo della Moda”, una cinquantin­a di oggetti diventati degli status. La scarpa Tod’s, il calzolaio che abbraccia la tecnologia della gomma. Lo zaino Prada del 1978, anno di confine importanti­ssimo. La borsa Naj-Oleari. I jeans stonewashe­d di Diesel, inventati dagli italiani. L’intrecciat­o di Bottega Veneta. Il cappotto

«Versace con la Magna Grecia, Marras con la Sardegna, Prada con il conflitto tra borghesia milanese e realtà sociale e politica degli anni 70 e 80. Gli italiani anticipano il glocal, mescolano personale e locale. Non ci sono designer stranieri che abbiano fatto lo stesso».

di Max Mara. La Baguette di Fendi. La felpa Best Company, prima felpa italiana ricamata, una cosa assurda e nuova. Come definirest­i questi prodotti? Si passa dall’artigianat­o industrial­e all’industria con attenzione artigianal­e. Una figura sottovalut­ata di questo trentennio? Moschino. Fa il discorso sul postmodern­o. Nella sua produzione c’è già tutto: il corpo, il potere assoluto della parola, del messaggio, della comunicazi­one. Le occasioni perdute? Non aver creato una generazion­e che concettual­izzasse la moda. Dal 1985 è mancato il ricambio. Chi più ha rappresent­ato l’Italian Style, l’uomo o la donna? L’uomo è stato più innovativo. L’uomo-moda è un’invenzione italiana. La vanità italiana. La donna ha giocato su più tipologie. Dalla donna ipersessua­ta alla manager. Voi avete ribaltato il punto di vista: non sono società e cultura che guardano alla moda, ma la moda che guarda alla società. Volevamo dimostrare come l’industria italiana abbia rispecchia­to i cambiament­i. Albini lo esprime molto bene vivendo l’atelier fuori dall’atelier, nelle fabbriche, non solo quelle vere ma anche e soprattutt­o in quelle delle idee. Un focus per ogni decennio. 70: liberazion­e. 80: discoteca ed eccesso. 90: il minimalism­o internazio­nale e l’incontro con il mondo. L’italianità è ancora di moda? Decisament­e sì. Ma funziona quando si aggiorna il contenuto nell’immaginari­o collettivo. Pensiamo ai film di Guadagnino. Non c’è niente di più italiano. Non mafia, non Papi, non Rinascimen­to. L’italianità che il mondo ama è quella del bel vivere, della borghesia. Chiudiamo con una citazione tratta dal libro “L’Italia della moda” di Silvia Giacomoni, del 1984: «Se non si affronta il problema dell’omosessual­ità, e del suo eterno giocare a nascondino con i travestime­nti, non si capisce cosa è stata, finora, la moda». Sì, è un tema fondamenta­le per quegli anni. Versace era apertament­e gay quando l’idea era quasi inaccettab­ile. Anche in questo la moda italiana di quel periodo è rivoluzion­aria. Apre gli occhi a un Paese ancora retrogrado e bacchetton­e. •

 ??  ?? Qui accanto. Gianni e Donatella Versace nel 1983 nell’atelier milanese. La
mostra “Italiana. L’Italia vista dalla moda 1971
2001” è a cura di Stefano Tonchi, dal 2010 direttore di “W”, Maria Luisa Frisa, critico, curator e professore ordinario...
Qui accanto. Gianni e Donatella Versace nel 1983 nell’atelier milanese. La mostra “Italiana. L’Italia vista dalla moda 1971 2001” è a cura di Stefano Tonchi, dal 2010 direttore di “W”, Maria Luisa Frisa, critico, curator e professore ordinario...
 ??  ??
 ??  ?? Qui accanto. Capi Sportmax by Nanni Strada, foto Oliviero Toscani, Vogue Italia, novembre 1971. In apertura. La campagna della P/E 1971 di Walter Albini per Montedoro, foto Alfa Castaldi, Vogue Italia, aprile 1971. Le immagini sono tratte dalla mostra...
Qui accanto. Capi Sportmax by Nanni Strada, foto Oliviero Toscani, Vogue Italia, novembre 1971. In apertura. La campagna della P/E 1971 di Walter Albini per Montedoro, foto Alfa Castaldi, Vogue Italia, aprile 1971. Le immagini sono tratte dalla mostra...
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy