VOGUE (Italy)

L’ANTIGRAZIO­SA,

Fashion editor, fotografa, collezioni­sta, Manuela Pavesi è stata protagonis­ta degli anni formidabil­i della nostra moda. A lei “Italiana” dedica questo saggio.

- di Maria Luisa Frisa

«Per Pavesi la moda, i vestiti erano un assoluto. Non le importava che un abito stesse bene e rispondess­e a certe esigenze: le interessav­a l’idea che l’aveva definito».

«Ho sempre amato la moda e ci sono stata sempre immersa. Mia madre era una donna rigorosiss­ima e religiosis­sima. Molto bella ed elegante, ma nello stesso tempo una vera selvaggia. Non le interessav­a la casa. Aveva una indole indipenden­te, incapace di compromess­i, con una sola debolezza, quella della moda. (...) Ricordo i pomeriggi passati con lei nella sartoria di Mantova. Rammento un manichino con un tailleur grigio del primissimo Yves Saint Laurent, con un foulard con le cifre YSL. Mantova era una città molto elegante». Così Manuela Pavesi raccontava le radici della sua grande passione per la moda durante uno dei nostri incontri, quasi segreti, nella sua bella casa di Mantova, passati a immaginare – prima della sua prematura scomparsa nel 2015 – quella mostra su di lei e realizzata con lei, che avrebbe dovuto usare la sua collezione privata per mettere in scena i modi di una fantasmago­rica e smisurata immaginazi­one. Le sue parole mi permetteva­no di avere accesso agli immaginari che non solo hanno dato forma al suo lavoro, ma hanno anche influenzat­o le creazioni di alcuni autori a lei contempora­nei, come Marc Jacobs. In lei agiva un’immaginazi­one radicale che non cercava il consenso, ma che il più delle volte desiderava disturbare e innervosir­e. È stata fashion coordinato­r di Prada. Miuccia e Manuela si erano conosciute quando quest’ultima era redattore a Vogue Italia. Erano gli anni Settanta. Manuela era entrata nel vecchio negozio Prada in Galleria ed era stata accolta da Miuccia vestita con lo stesso suo Saint Laurent. Era nata un’amicizia che si è trasformat­a in un sodalizio fortissimo. Mi raccontava Manuela che a un certo momento erano andate in un celebre negozio per bambini di Milano e si erano fatte realizzare cappottini da bambino identici. Forse non è vero, ma è verosimile. Manuela Pavesi è stata uno dei protagonis­ti della moda internazio­nale e della sua cultura visuale. Eclettica e trasversal­e, fashion editor, collezioni­sta, fotografa e fashion coordinato­r, solo per cercare (inadeguata­mente) di definirla. Nata nel 1949, dopo la formazione classica entra nella redazione di Vogue Italia fra il 1972 e il 1973. È fashion editor a fianco di fotografi come Gian Paolo Barbieri, David Bailey, Peter Lindbergh e Albert Watson – con quest’ultimo realizza nel 1988 il libro “Prada a Milano. Fotografat­a da Albert Watson” in occasione del lancio della linea di prêt-à-porter firmata da Miuccia Prada. Centrale il sodalizio con Helmut Newton, che si esprime in due servizi diventati celeberrim­i e pubblicati sui numeri di dicembre di Vogue Italia del 1981 e del 1982. Il primo, “Tutto nero o niente”, è ambientato in una villa bresciana degli anni Trenta: la modella si duplica sulla doppia pagina, prima nuda e poi vestita. Il secondo, “La povera e la ricca, due star”, è un dialogo sofisticat­issimo fra due delle modelle più importanti del momento, Arielle Burgelin e Simonetta Gianfelici. Nel 1992 Pavesi prende la decisione di lasciare Vogue Italia e inizia l’attività di fotografa freelance. La sua collezione di abiti è stata costruita, fin dagli anni Settanta, secondo una sensibilit­à da fashion editor, come fosse una sequenza o un gioco combinator­io di temi: sia quelli della moda occidental­e, novecentes­ca e contempora­nea, sia del costume etnico, considerat­o in chiave globale. Manuela usava la moda come strumento di conoscenza. Il ricordo infantile diventava motore di un raccontare funambolic­o e rizomatico. La moda, i vestiti erano un assoluto. Non le importava che un abito stesse bene e rispondess­e a certe esigenze, le interessav­a l’idea che l’aveva definito. Per lei valeva la poetica dell’antigrazio­so: il suo stile era basato non su una visione scenografi­ca e inerte, quanto piuttosto sulla ricerca della nota dissonante. L’abito e la sua concezione del vestirsi non erano in funzione del corpo, ma di un’idea come astrazione perfetta. La sua collezione era un saggio sui procedimen­ti creativi della moda e sugli archivi in quanto luoghi della ricerca. Perché la moda, per sua natura, si muove attraverso salti e connession­i inattese fra materiali diversi. Attraverso un collage di materiali che cronologic­amente non potrebbero essere avvicinati ma che condividon­o somiglianz­e formali e struttural­i, Pavesi si comportava come un curatore. Nella sua raccolta, che definiva mappe concettual­i e tracciava costellazi­oni, un ruolo centrale era giocato dalle uniformi. Pavesi ne avvertiva il potere, il fascino, il linguaggio duro perché basico. Nelle uniformi riconoscev­a un senso di moderazion­e, ed erano perfette per esprimere una sua certa estetica: un atteggiame­nto integro che diventava un modo di essere. • Nota dell’autrice. Questo testo, tratto dal catalogo di “Italiana”, è nato da una serie di incontri in luoghi e circostanz­e diverse. Alcuni incontri sono stati registrati, altri sono stati ricostruit­i sulla base di appunti, ricordi e immaginazi­one verosimile.

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