dottore, è vero che l’aids si cura? no,
Prima l’ho dovuto dire ai genitori, che dopo lo choc iniziale si sono aggrappati alla più illusoria delle speranze, alla più ingenua delle ignoranze: «Tanto si cura, vero dottore?». Poi l’ho detto a lei, che s’era contagiata facendo l’amore con un ragazzino che per un certo periodo aveva per così dire “oscillato”, sperimentando sia l’affettività omosessuale sia quella etero: «Quindi ho l’Aids», m’ha risposto la bambina, «e cos’è, dottore?». Anita ha solo tredici anni e di Hiv e sieropositività non sapeva nulla. Non usava precauzioni, e non aveva idea che l’11 per cento delle nuove infezioni colpisce i suoi amici, millennials tra i 15 e i 24 anni. Non sospettava che l’80 per cento dei contagi avviene così: facendo l’amore. E che i nuovi casi, in Italia, hanno raggiunto la cifra di quasi quattromila l’anno. I genitori a tavola le avevano parlato di voti, s’erano raccomandati di non star troppo al cellulare, ma di malattie sessualmente trasmissibili, di Hiv e di Aids, non avevano discusso mai. Perché la prevenzione in famiglia non esiste. E la comunicazione, a livello istituzionale, è scomparsa. Tanto che gli adulti pensano all’Hiv/Aids come a un fenomeno vintage, a una minaccia risibile e non più mortale, mentre nel 2017 i casi d’infezione nei Paesi dell’Unione Europea sono stati oltre centoquarantamila, la cifra più alta dagli anni Ottanta, quando il virus uccideva le star del cinema e del rock. Colpevolmente, ci siamo scordati che di Aids non è mai guarito nessuno. E che se la diagnosi giunge tardivamente e a malattia già conclamata, come accade in oltre il 30 per cento dei casi, non c’è speranza, e si muore ancora. Gay, eterosessuali, senza distinzione. «Tanto si cura, vero dottore?». Forse un giorno accadrà: per ora no. Ma facendo il test, che è disponibile in farmacia e garantisce un risultato immediato, si può conoscere la verità in tempo e curarsi, conducendo una vita quasi normale. Quasi. Perché gli effetti collaterali dei farmaci antiretrovirali, seppur sempre minori, sono molto pesanti. E se non sono assunti con regolarità rafforzano il virus, al posto di indebolirlo. Ma quantomeno, curandosi, si cessa istantaneamente di essere veicolo di contagio per gli altri: se è vero che un sieropositivo su tre arriva tardi a conoscere la propria diagnosi, anche dopo quasi dieci anni di incubazione, significa che ha avuto a disposizione un tempo drammaticamente infinito per diffonderlo. Questo meccanismo va fermato. Anche combattendo fenomeni folli come i Chem Sex Party, orge a base di droga che hanno fatto esplodere l’epidemia a Londra, a Berlino, in quartieri come il Marais di Parigi e mettono a rischio zone come via Lecco a Milano, tutti luoghi d’incontro per la comunità gay. Funziona così: ci si chiude in un appartamento, si prendono droghe e farmaci antiretrovirali nella speranza di difendersi dal contagio (il fenomeno si chiama “PrEP”), e poi si fa sesso per giorni. Leggerezze che hanno portato la percentuale di nuovi malati nella comunità Lgbt a crescere incessantemente negli ultimi anni. Grazie a Convivio e Anlaids sono state finanziate ventisei borse di studio, attivati cinquantadue studi clinici, pubblicati più di centocinquanta articoli scientifici. La speranza serve, la ricerca anche, ma la consapevolezza ancor di più. «Dottore, è vero che si cura?». No. Ma l’Aids si può schiacciare, zittire subito, e per sempre. • *Nato a Milano nel 1963, è direttore dell’Unità operativa malattie infettive presso Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano e docente di Malattie infettive presso l’Università degli Studi di Milano; è consigliere di Anlaids Lombardia.