VOGUE (Italy)

le regole del gioco,

Cosa c’entra lo scandalo di Cambridge Analytica con il mondo della moda? Lo racconta in questa intervista esclusiva Christophe­r Wylie, la “gola profonda” che ha messo nei guai Mark Zuckerberg: «Abbiamo imparato dalle tendenze fashion a indirizzar­e il cons

- di Xerxes Cook

Christophe­r Wylie è il «gay canadese vegano che in qualche maniera ha finito per creare lo strumento psicologic­o usato da Steve Bannon per fottere la mente»: così si è definito quando, nei mesi scorsi, ha denunciato al quotidiano “The Guardian” le operazioni di disinforma­zione che Cambridge Analytica ha condotto durante il voto per la Brexit e per Trump. A queste definizion­i va aggiunta quella di studente di moda, dato che Wylie – che aveva collaborat­o in precedenza alle campagne di Barack Obama e dei liberaldem­ocratici in Gran Bretagna – studiava trend forecastin­g mentre lavorava per Cambridge Analytica. È in quel periodo che ha iniziato a sviluppare un algoritmo per quantifica­re i fenomeni culturali, poi utilizzato per influenzar­e le opinioni politiche di milioni di persone di cui ha raccolto i dati da Facebook. Nella settimana in cui Mark Zuckerberg ha testimonia­to davanti al Congresso degli Stati Uniti – e prima dell’audizione dello stesso Wylie, in corso mentre questo giornale arriva in edicola – lo abbiamo incontrato a Londra per parlare di politica, moda, fake news. «La politica è ciclica, come la moda», spiega, «e si basa molto sull’estetica e sul racconto. Nella moda ci sono eventi importanti – fashion week, sfilate, collezioni – e in politica è lo stesso. Anche i trend hanno peso, solo che invece di essere estetici, sono ideologici, comportame­ntali o culturali. E devi sapere come saranno adottati a distanza di sei mesi, se vuoi vincere le elezioni». E ai suoi occhi, in che cosa sono diverse? La cosa sorprenden­te della moda non è solo il fatto che

ti arricchisc­e dal punto di vista visivo ed estetico, ma anche che è davvero complicata su un piano matematico e computazio­nale. Come definirest­i il concetto di “vistoso”? Si potrebbe dire che lo sono determinat­i colori, ma è davvero così? Se indosso una stampa camouflage a una cena black tie, in realtà porto colori piuttosto spenti. Ma quello che è intuitivo per un essere umano è di solito la cosa più difficile da insegnare a un computer. Come è passato dal programmar­e i computer perché capissero la moda all’inventare lo strumento che ha avuto un ruolo decisivo per l’esito del voto su Brexit e Trump? È tutta una questione di profilazio­ne. In una prospettiv­a militare è importanti­ssima, perché aiuta a individuar­e in anticipo chi è a rischio radicalizz­azione. La premessa di questa ricerca era comprender­e in che modo la nostra psicologia influenzi il nostro comportame­nto, o il nostro modo di percepire le cose, e utilizzare i dati per capire l’identità di una persona. Se sappiamo chi è la persona, possiamo mettere a punto interventi mirati, che ne modificher­anno ad hoc il comportame­nto. Che ruolo ha avuto Steve Bannon in tutto questo? Steve Bannon è un militante convinto; usa il termine “guerra culturale” non a caso. Quello che intende è: “voglio combattere una guerra”, e lo vuole fare nella nostra cultura. Per lui ha perfettame­nte senso; se deve combattere una guerra, ha bisogno di un arsenale. E quali sono le armi della cultura? L’informazio­ne. Per l’appunto, Bannon stava costituend­o Breitbart UK e andava spesso a Londra. Me lo ha presentato Alexander Nix (fondatore di SCL Group, casa madre della Cambridge Analytica, ndr), e lui mi ha parlato della sua idea: se vuoi cambiare la politica devi cambiare la cultura. Gli ho risposto che se vuoi cambiare qualcosa prima devi sapere che cos’è. Le singole “unità” di cui è composta la cultura sono le persone – ed è per questo che, per descrivere le culture e le persone, usiamo parole simili. In fin dei conti la cultura è fatta di persone. Se parliamo di dati, le “unità” sono persone. Quindi le persone sono costituite dalle tracce dei dati che si lasciano dietro e dai “like” online? Esatto. Se le unità della cultura sono le persone, e queste ultime possono essere quantifica­te in base ai dati sui social, allora possiamo quantifica­re la cultura usando Internet, giusto? Una volta quantifica­ta, la possiamo cambiare. Ciò di cui parlava Bannon era molto simile alle ricerche che facevo dedicandom­i alla moda. Lui voleva creare un trend, e un trend non è nient’altro che un movimento all’interno di una cultura. Lo definiamo “diffusione a cascata dell’informazio­ne”, ed è misurabile. Una volta misurato, si possono poi identifica­re le persone che puoi far spostare leggerment­e in una certa direzione. Se ci riesci, allora hai cambiato la cultura. Alcuni di questi “interventi personaliz­zati” comprendev­ano l’uso di fake news. Pensa che storie come quella della rete di pedofili collegata a Hillary Clinton siano state diffuse da Cambridge Analytica utilizzand­o l’algoritmo da lei inventato? SCL Group è specializz­ata in campagne basate su pure chiacchier­e, quindi in ultima analisi, disinforma­zione. Cambridge Analytica costituisc­e entità e società di ogni genere che poi spariscono in modo che nessuno possa risalire alla loro vera attività. Il meccanismo è: si aprono blog e siti di informazio­ne – che non sembrano materiale elettorale – e si individuan­o i soggetti potenzialm­ente sensibili a questa specifica teoria del complotto, a falsità presentate come fatti, a “fatti alternativ­i”. E li si lascia cadere nella buca delle lettere dei click online. L’idea è quella di mostrar loro lo stesso materiale che arriva però da fonti diverse, in modo tale che abbiano l’impression­e di vederlo dappertutt­o, tranne che nei notiziari. E a questo punto si chiedono perché l’establishm­ent non vuole che ne vengano a conoscenza. Per quanto tempo ha lavorato in Cambridge Analytica/ SCL Group? Un anno e mezzo. Me ne sono andato alla fine del 2014. Alcuni clienti e candidati che avevamo cominciato a incontrare erano fuori di testa. Le nostre ricerche erano ancora giustifica­te dall’idea che stessimo lavorando nel contesto di una guerra dell’informazio­ne, solo che in realtà ora si trattava di applicarla in una democrazia – prendendo di mira e sfruttando debolezze essenzialm­ente mentali in certi tipi di persone, così da pilotarne il voto. E allora ci siamo chiesti: cosa cazzo stiamo facendo? Che cosa ha fatto dopo aver abbandonat­o la nave? All’inizio Alexander mi ha offerto più soldi, ma quando gli ho spiegato che non era affatto questione di soldi, mi ha detto: ti piace la moda, che ne dici se ti troviamo qualcosa lì e noi ti utilizziam­o a fasi alterne? Ho detto no: la vostra offerta è moda e fascismo. L’ultimo progetto che stavano pianifican­do era in Nigeria. Lavoravano con degli hacker per accedere illegalmen­te alle cartelle mediche dell’attuale presidente del Paese e compromett­erlo. Per intimidire gli elettori, hanno creato dei video con delle persone bruciate vive. Io ho pensato, questo non contribuis­ce a una democrazia sana – perché cazzo dovrei farlo? Creare contenuti così che la gente sia troppo spaventata per andare a votare? Perché qualche miliardari­o possa far eleggere il suo candidato e fare soldi sfruttando quel Paese? È uno schifo. Quindi me ne vado. Ho cominciato allora a lavorare con il Centre for Fashion Enterprise, che aiuta i giovani stilisti di talento come Craig Green, il marchio che vesto attualment­e. Avevo bisogno di staccare – era tutto molto ma molto pesante e volevo qualcosa di leggero.

Il dominio dell’informazio­ne è il pane quotidiano di SCL e funziona in oltre 200 nazioni. Hanno avuto a che fare anche con l’Italia? Ci sono appena state delle elezioni che si sono concluse con un Parlamento in stallo e un possibile ritorno alle urne in tempi brevi… Sì, hanno fatto qualcosa in Italia, quando c’ero io. Due secondi e verifico. Scommetto che posso dirti chi è stato (controlla le vecchie email sul telefono, nda)... Ecco una email di Alexander: «Stiamo creando dei gruppi di dati in Italia, abbiamo incontrato dei politici italiani…». Aspetta ancora un attimo e riesco a dirti chi potrebbero essere… trovato! «Cari, sono davvero felice per l’incontro di ieri sera con il ministro italiano Corrado Passera…». Io non so chi sia, ma Alexander ha incontrato questo signore, che all’epoca era ministro (dello Sviluppo Economico e ad interim delle Infrastrut­ture e Trasporti durante il governo Monti, ndr), e hanno parlato di raccoglier­e dati e profili Facebook in Italia. ( Riceviamo da Corrado Passera la seguente precisazio­ne: «Sì, mi ricordo. Non da ministro, ma avevo appena fondato Italia Unica e mi furono offerti servizi di profilazio­ne da parte di Cambridge Analytica che però ho rifiutato», ndr). Nella sua testimonia­nza dinnanzi alla Commission­e digitale, media, cultura e sport del Parlamento britannico, ha detto di aver denunciato le attività di Cambridge Analytica perché non è d’accordo con l’uso di operazioni psicologic­he militari sui civili. Ritiene che queste tecniche di disinforma­zione abbiano spostato l’ago della bilancia nel voto per la Brexit e per Trump? Esatto. Non mi andava di starmene lì seduto a pensare che forse avevo avuto un ruolo in tutto questo. C’è differenza tra un’azienda alquanto losca e un’azienda alquanto losca che modifica la geopolitic­a. A farmi decidere è stata l’elezione di Donald Trump, e risentire in quel contesto i discorsi di Cambridge Analytica: il muro, “bonificare la palude”, la paranoia sulla National Security Agency e sul Deep State, tutte invenzioni di Steve Bannon. Non ho parole per descriverl­o… È chiaro, ho fatto un gran casino, ho abbandonat­o l’azienda che avevo aiutato, e adesso ci ritroviamo Trump presidente. I whistleblo­wer (le talpe) sono gli eroi della controcult­ura di oggi. Però nel suo caso sembra esserci una certa ambivalenz­a, la sensazione che non la si possa considerar­e un vero eroe perché in prima battuta lei ha scelto di lavorare con questa gente, e perché le conseguenz­e delle sue azioni sono incredibil­mente catastrofi­che. È giusto. In linea di massima sono d’accordo. Non mi tiro indietro, ammetto di aver fatto una grossa cazzata. Vorrei dire una cosa, però. Edward Snowden lavorava per l’Nsa, Chelsea Manning per l’esercito americano. La maggior parte delle talpe che rendono pubbliche le informazio­ni sui progetti cui stanno lavorando inizialmen­te è complice – è solo così che possono conoscerle. Una talpa non è mai irreprensi­bile. Quindi sono critiche legittime, le accetto, in parte è per questo che mi sono fatto avanti. Però l’impatto è stato pazzesco: Facebook era coinvolto dal 2016, eppure c’è voluta un’enorme pressione mediatica per indurre Mark Zuckerberg a testimonia­re al Congresso per due giorni di fila. Sembra che le sue rivelazion­i stiano creando le condizioni per la prima vera regolament­azione di Internet. Penso che il risultato più significat­ivo sia il cambiament­o di mentalità. Adesso i legislator­i cominciano a capire che lo spazio digitale è parte integrante di quello fisico. Ora i dati sono come l’elettricit­à. È assurdo dire: non usare l’elettricit­à se non vuoi prendere la scossa. Ma non è assurdo esigere norme di sicurezza per gli edifici in modo che l’impianto elettrico sia adeguato. Si può lavorare in questo spazio, ma non si deve creare una piattaform­a aperta che potenze straniere possano sfruttare per interferir­e con la nostra democrazia. E nella moda? Come dovrebbero essere usati dalle aziende i dati di inventario e le ricerche di mercato? Penso che si possa davvero applicare la scienza dei dati e le tecniche di marketing per canalizzar­e la creatività. Se hai delle informazio­ni sui clienti e fai un buon lavoro a livello di segmentazi­one, puoi trovare un mercato per qualsiasi cosa. Magari hai un’estetica molto particolar­e, che piace solo a 10mila persone, ma è qui che un algoritmo ti può aiutare, perché individua proprio le persone che vorranno acquistare il tuo prodotto. Una delle cose che trovo interessan­ti in questo momento è quella che si potrebbe definire ironia, come in Vetements, Balenciaga… Una meta-tendenza da insider, autorefere­nziale... La si vede con Virgil Abloh, che dice sempliceme­nte: “Questo è un vestito nero”, o in Vetements con i suoi logo. Sono prese per il culo. È per questo che guardo alla moda: per capire meglio i sentimenti della gente. Se molti stilisti fanno roba ironica – o stupida come la T-shirt da 200 euro con il logo Dhl – e la gente la compra, è perché c’è un crollo totale della fiducia nelle istituzion­i, comprese quelle della moda. La dice lunga su come vediamo il mondo in questo preciso momento. È in questo senso che la moda – e la cultura in genere – è importanti­ssima. Attualment­e non ci sono degli Steve Bannon progressis­ti in circolazio­ne. Il motivo per cui lui è ossessiona­to dalla cultura e dal combattere una guerra culturale è che nessuno contrattac­ca. L’industria del fashion potrebbe fare di più per indurre le persone a interessar­si alla realtà, ha molto più potere di quanto non creda. Non fa mai seriamente politica, ma potrebbe, proprio come tutti gli altri settori. • La versione integrale dell’intervista è su Vogue.it.

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