voi, illetterati glitterati,
Paradossi in questi tempi di “disruption”: per diventare stilisti, dice il CRITICO, oggi studiare non serve, danneggia. E, a proposito di alcune recenti nomine, avverte: dall’hype all’odio il passo è breve.
Si moltiplicano i concorsi e le occasioni tesi a dare visibilità, in un panorama invero sovraffollato di protagonisti grandi e piccini, alle nuove leve e ai neodiplomati dello stilismo. Nelle scuole, intanto, proliferano i corsi per formalizzare in un iter didattico riconosciuto tutte le micro e macro professioni della moda. Eppure, chiunque oggi voglia lanciarsi verso il successo planetario a scuola non ha il minimo bisogno di andarci. Almeno, così parrebbe a giudicare dalle notizie dell’ultima ora, con inevitabile riscontro al botteghino annunciato a caratteri cubitali sulla stampa di settore, sempre più grancassa dello status quo invece che laboratorio di pensiero o dubbio progressivo. È la rivincita dell’illetterato glitterato. La tanto osannata disruption – non solo le fogge sono vittima delle voghe, ma anche i vocaboli in questi tempi di comunicazione a effetto – riuscirà più naturale se le regole le si ignora alla base. L’aspirante star contemporanea, beatamente ignorante – di una ignoranza nulla affatto socratica, men che mai vicina allo stato di natura celebrato da Rousseau –, deve lavorare su intuizioni e idee, contando poi su stuoli di maestranze – quelle sì altamente specializzate, dunque scolarizzate – per realizzarle. L’impegno vero andrà però profuso con ogni forza e con tutti gli sforzi d’astuzia, intelligenza ed economia sulla percezione mediatica della propria persona. La partita esiziale si gioca lì. Chi vuol vendere, capitalizzando sul materiale, deve in primo luogo accudire l’immateriale: il seguito digitale, fuor di metafora. Il numero di follower è il bene su cui si costruisce il futuro. Ormai è così anche per le modelle, che ai casting portano book e feed Instagram.
La succinta analisi testé snocciolata è criptica come un segreto di Pulcinella. Prende le mosse dalla nomina, accompagnata dall’inevitabile valanga di commenti, esegesi, dissezioni, dilazioni, parodie, panegirici, di Virgil Abloh – dilettante eccellente ma non certo allo sbaraglio, forte del successo di OffWhite, marchio del momento nel panorama dello streetwear che schiaccia ogni altra forma vestimentaria – al ruolo di direttore artistico del menswear di Louis Vuitton, la maison francese che nell’immaginario collettivo rappresenta il lusso. Per chiunque: da Los Angeles a Ragusa, o almeno ovunque arrivi la pubblicità, con una tela monogrammata che passa di padre in figlio come orizzonte ultimo del desiderio spendaccione. Gli inguaribili ottimisti leggono il successo di Abloh come dimostrazione che se si sogna abbastanza forte, i sogni alla fine si avverano. Anche i sogni, però, oggi non escludono calcolo e cinismo. Virgil Abloh è l’araldo del cool immediato, ammantato di quel tanto di concettuale che conferisce mistero e spessore: mette tutto tra virgolette, giocando a citare anche quando non cita. Possiede un patrimonio di quasi due milioni di follower su Instagram, è ambizioso e affabile, e sa come parlare al pubblico.
La scelta, per quanto in apparenza balzana, non fa quindi una piega. Anzi, riassume e sintetizza lo stato delle cose: la momentanea fine del professionismo in favore del battage mediatico, o hype che dir si voglia. La vera merce, oggi, non sono i vestiti, poco pensati e velocemente progettati, ma l’aura che essi emanano e la maniera in cui la si comunica. Le tecniche aggressive vincono. È stato così per Vetements, marchio che pure è guidato da un vero designer: l’hype, che adesso si sta trasformando in odio, ha generato una ascesa fulminea, sostenuta da un diabolico modello di marketing mutuato dallo streetwear di nicchia e fatto di molta attesa per prodotti centellinati. Altrove, in ambiti più civettuoli, Attico è frutto dell’esposizione digitale delle influencer Gilda Ambrosio e Giorgia Tordini, presto passate allo status di autrici ma invero sofisticate campionatrici di stili da boudoir, laddove il modello supremo Chiara Ferragni si accontenta ancora del ruolo di billboard vivente per marchi d’ogni ordine e grado. In siffatta temperie, il caso Abloh si può leggere come la propaggine estrema dell’ascesa del direttore creativo che ha percorso tutti gli anni zero giungendo fino a oggi, con il conseguente sorpasso del design a favor di storytelling. Il cliente va irretito in una fantasia: una felpa o una sottoveste fanno poca differenza, se ben raccontati. È tutto un fatto di connessione con l’audience, che poi è ab antiquo la ricetta del successo. È il linguaggio fatto solo di styling, assemblaggio o trattamento grafico delle superfici che rischia l’appiattimento, vera dannazione di tutta la cultura digitale. Dare al pubblico quello che il pubblico vuole è importante, ma sul lungo termine è forse più saggio proporre quel che la gente non si aspetta. Si chiama progresso, e l’hype non basta. O no? •
«Dare al pubblico quello che chiede è importante, ma sul lungo termine forse è più saggio proporre quello che la gente non si aspetta. Si chiama progresso».