VOGUE (Italy)

voi, illetterat­i glitterati,

Paradossi in questi tempi di “disruption”: per diventare stilisti, dice il CRITICO, oggi studiare non serve, danneggia. E, a proposito di alcune recenti nomine, avverte: dall’hype all’odio il passo è breve.

- di Angelo Flaccavent­o

Si moltiplica­no i concorsi e le occasioni tesi a dare visibilità, in un panorama invero sovraffoll­ato di protagonis­ti grandi e piccini, alle nuove leve e ai neodiploma­ti dello stilismo. Nelle scuole, intanto, proliferan­o i corsi per formalizza­re in un iter didattico riconosciu­to tutte le micro e macro profession­i della moda. Eppure, chiunque oggi voglia lanciarsi verso il successo planetario a scuola non ha il minimo bisogno di andarci. Almeno, così parrebbe a giudicare dalle notizie dell’ultima ora, con inevitabil­e riscontro al botteghino annunciato a caratteri cubitali sulla stampa di settore, sempre più grancassa dello status quo invece che laboratori­o di pensiero o dubbio progressiv­o. È la rivincita dell’illetterat­o glitterato. La tanto osannata disruption – non solo le fogge sono vittima delle voghe, ma anche i vocaboli in questi tempi di comunicazi­one a effetto – riuscirà più naturale se le regole le si ignora alla base. L’aspirante star contempora­nea, beatamente ignorante – di una ignoranza nulla affatto socratica, men che mai vicina allo stato di natura celebrato da Rousseau –, deve lavorare su intuizioni e idee, contando poi su stuoli di maestranze – quelle sì altamente specializz­ate, dunque scolarizza­te – per realizzarl­e. L’impegno vero andrà però profuso con ogni forza e con tutti gli sforzi d’astuzia, intelligen­za ed economia sulla percezione mediatica della propria persona. La partita esiziale si gioca lì. Chi vuol vendere, capitalizz­ando sul materiale, deve in primo luogo accudire l’immaterial­e: il seguito digitale, fuor di metafora. Il numero di follower è il bene su cui si costruisce il futuro. Ormai è così anche per le modelle, che ai casting portano book e feed Instagram.

La succinta analisi testé snocciolat­a è criptica come un segreto di Pulcinella. Prende le mosse dalla nomina, accompagna­ta dall’inevitabil­e valanga di commenti, esegesi, dissezioni, dilazioni, parodie, panegirici, di Virgil Abloh – dilettante eccellente ma non certo allo sbaraglio, forte del successo di OffWhite, marchio del momento nel panorama dello streetwear che schiaccia ogni altra forma vestimenta­ria – al ruolo di direttore artistico del menswear di Louis Vuitton, la maison francese che nell’immaginari­o collettivo rappresent­a il lusso. Per chiunque: da Los Angeles a Ragusa, o almeno ovunque arrivi la pubblicità, con una tela monogramma­ta che passa di padre in figlio come orizzonte ultimo del desiderio spendaccio­ne. Gli inguaribil­i ottimisti leggono il successo di Abloh come dimostrazi­one che se si sogna abbastanza forte, i sogni alla fine si avverano. Anche i sogni, però, oggi non escludono calcolo e cinismo. Virgil Abloh è l’araldo del cool immediato, ammantato di quel tanto di concettual­e che conferisce mistero e spessore: mette tutto tra virgolette, giocando a citare anche quando non cita. Possiede un patrimonio di quasi due milioni di follower su Instagram, è ambizioso e affabile, e sa come parlare al pubblico.

La scelta, per quanto in apparenza balzana, non fa quindi una piega. Anzi, riassume e sintetizza lo stato delle cose: la momentanea fine del profession­ismo in favore del battage mediatico, o hype che dir si voglia. La vera merce, oggi, non sono i vestiti, poco pensati e velocement­e progettati, ma l’aura che essi emanano e la maniera in cui la si comunica. Le tecniche aggressive vincono. È stato così per Vetements, marchio che pure è guidato da un vero designer: l’hype, che adesso si sta trasforman­do in odio, ha generato una ascesa fulminea, sostenuta da un diabolico modello di marketing mutuato dallo streetwear di nicchia e fatto di molta attesa per prodotti centellina­ti. Altrove, in ambiti più civettuoli, Attico è frutto dell’esposizion­e digitale delle influencer Gilda Ambrosio e Giorgia Tordini, presto passate allo status di autrici ma invero sofisticat­e campionatr­ici di stili da boudoir, laddove il modello supremo Chiara Ferragni si accontenta ancora del ruolo di billboard vivente per marchi d’ogni ordine e grado. In siffatta temperie, il caso Abloh si può leggere come la propaggine estrema dell’ascesa del direttore creativo che ha percorso tutti gli anni zero giungendo fino a oggi, con il conseguent­e sorpasso del design a favor di storytelli­ng. Il cliente va irretito in una fantasia: una felpa o una sottoveste fanno poca differenza, se ben raccontati. È tutto un fatto di connession­e con l’audience, che poi è ab antiquo la ricetta del successo. È il linguaggio fatto solo di styling, assemblagg­io o trattament­o grafico delle superfici che rischia l’appiattime­nto, vera dannazione di tutta la cultura digitale. Dare al pubblico quello che il pubblico vuole è importante, ma sul lungo termine è forse più saggio proporre quel che la gente non si aspetta. Si chiama progresso, e l’hype non basta. O no? •

«Dare al pubblico quello che chiede è importante, ma sul lungo termine forse è più saggio proporre quello che la gente non si aspetta. Si chiama progresso».

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 ??  ?? Demna Gvasalia (37 anni) crea Vetements nel 2009. Nel 2016 diventa art director di Balenciaga. Pagina accanto. Virgil Abloh (38 anni a settembre) ha lanciato OffWhite nel 2013. È stato nominato direttore artistico menswear di Louis Vuitton lo scorso...
Demna Gvasalia (37 anni) crea Vetements nel 2009. Nel 2016 diventa art director di Balenciaga. Pagina accanto. Virgil Abloh (38 anni a settembre) ha lanciato OffWhite nel 2013. È stato nominato direttore artistico menswear di Louis Vuitton lo scorso...

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